Questa mattina il capitano della barca ci chiede se vogliamo
visitare l'isola di Nomuka, nella cui baia ha appena gettato l'ancora. Credo abbia capito che preferisco
questo tipo di "escursioni" allo snorkelling o alle spiagge deserte, pur amando anche quel tipo di
attività. Di Numuka mi ricordo un poco la
storia, ma non so niente di più, non sapevo che ci saremmo fermati qui. Ed è stata una bella sorpresa. Qui la vita si svolge
ancora senza rumori, senza modernità (gli unici edifici importanti, che si affacciano sul lago interno, sono due chiese), con un trascorrere del tempo secondo i ritmi della
natura, ancora di più che nelle principali isole di Tonga. Ci sono circa 500 abitanti in tutto e le attività
economiche prevalenti sono la pesca e la produzione di tessuti di tapa e di cesti e tappeti
intrecciati, che è una delle migliori e più apprezzate in tutti gli arcipelaghi delle Tonga. La lavorazione delle foglie di pandano, luo'akau in tongano (pandanus spp),
è una delle attività artigianali più comuni in tutto il regno di Tonga. Da secoli il pandano viene
coltivato esclusivamente per questo scopo. Qualcuno ha diffuso la teoria che si sia sviluppata l'arte di
intrecciare le fibre solo dopo l'arrivo dei missionari che non amavano vedere la gente circolare svestita e
imposero l'usanza di arrotolare alla vita questi tipi di tessuti intrecciati. Secondo me, e secondo i tongani
a cui ho chiesto, questa lavorazione veniva usata da molto tempo prima che arrivassero gli europei.
Nelle prime illustrazioni fatte sui diari di Tasman e di Cook si vedono tanti di questi oggetti, e addirittura
tutte le vele delle barche erano fatte con queste fibre. In alcune illustrazioni addirittura si vedono le
recinzioni delle case fatte di stuoie intrecciate. Erano fatte principalmente per proteggere le coltivazioni
dai maiali che giravano liberamente (e lo fanno ancora adesso).
Dopo che sono state tagliate dalla pianta le foglie vengono
separate dalla parte centrale (molto dura) e dalla parte esterna piena di spine. Dopo una breve essiccazione vengono intrecciate e si producono
cesti di tutte le forme, vassoi, e stuoie di diversi tipi. In certi casi vengono utilizzate anche altre fibre,
principalmente quelle della palma da cocco.
Un'altra lavorazione tradizionale è quella della tapa. Per produrla vengono usate le cortecce di una varietà di
gelso, chiamato hiapo in tongano e in inglese paper mulberry (broussonetia papyrifera). Dopo che sono staccate
dalla pianta vengono lasciate in mare diverso tempo per ammorbidirle, di seguito vengono fatte asciugare per terra o
appese su fili, poi vengono battute con dei legni appropriati in modo che diventano sempre più fini e
morbide, quindi con delle colle vegetali vengono unite le strisce e in alcuni casi ora pure rifinite con
delle macchine da cucire che da noi ormai si trovano solo dagli antiquari. Di seguito il tessuto così ottenuto viene
disegnato con tinture vegetali e abbellito, per le tapa più importanti, con ricami.
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pandano |

taglio delle foglie di pandano |

taglio delle foglie di pandano |

cortecce di hiapo |

cortecce di hiapo |

rifinitura bordi tapa con macchina da cucire |
Insieme al capitano della barca, che ha alcuni parenti in questa isola, e un
paio di marinai, scendiamo a terra dopo aver fatto un lungo giro con il tender per evitare i banchi di corallo.
Subito mi stupisce, essendo l'isola abitata, l'assenza di rumore. Solo canti di uccelli, il rumore della
risacca e qualche risata degli
anziani che sono in una specie di capanna vicino all'unico store dell'isola che vende di tutto e che si trova
in una capanna di legno e paglia di pochi metri quadrati. Ne approfitto per comprare le sigarette (le avevo
dimenticate in cabina...) e un paio di pacchetti di tabacco e cartine, di cui ho quasi finito la scorta.
Offrire da fumare è un ottimo metodo per scambiare due parole con la gente del posto che al primo momento mi sembra meno
cordiale di quella che ho conosciuto finora. Ma in poco tempo mi rendo conto che è solo la sorpresa che
qualcuno sia sceso a visitare l'isola. Non sono molto abituati al contatto con i turisti. Dopo qualche battuta
e una fumata in compagnia, un ragazzo più sveglio e intraprendente degli altri si offre come guida. Il capitano gli chiede
dov'è la scuola perché non si ricorda più dov'è, dice che ci è stato poche volte in quest'isola e sempre
a casa di qualcuno. Una delle insegnanti è una sua parente e vuole passare a salutarla. Ancora una volta ci
chiede (certe volte mi stupisco di questi comportamenti e forse la spiegazione è dovuta al fatto che
normalmente i "turisti" non si
interessano alla vita del posto) se vogliamo andare con lui o preferiamo andare in spiaggia...
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enorme tapa finita |

il posto di polizia |

ufficio informazioni |

cimitero |

piccola chiesa |

l'unica pecora dell'isola |

aula scolastica |

alunni |

davanti alla videocamera |

sempre più davanti... |

aho, la fate cadere ! |
scatenamento generale ! |
Attraversiamo parte dell'isola seguendo una specie di sentiero
tracciato nell'erba e arriviamo alla scuola. Per entrare dobbiamo scavalcare una protezione in legno e stuoie
che circonda tutta l'area dell'edificio e del bellissimo giardino. Lo fanno per evitare che entrino i maiali
che girano liberi per tutta l'isola e che oltre a mangiare tutto quello che riescono, lasciano dei bei
"ricordi" che non sono graditi nel campo da gioco. Ci sono due insegnanti, una è la lontana parente
del capitano e segue le prime classi e un'altra segue un gruppo di bambini più grandi. Un'aula è nella
veranda dell'edificio e l'altra è in un grande locale interno, semiaperto. Invidio questi bambini che
passano le giornate di scuola all'aria aperta, in mezzo ad una natura così bella... e penso alle anonime aule
in cui ho fatto le mie elementari. Dopo i saluti e la presentazione la maestra ci dice che sta facendo lezione
di canto e ci invita ad accomodarci per ascoltare. I bambini cantano prima un pezzo tradizionale che ho già
sentito in altre occasioni e poi iniziano un pezzo che mi ricordo di aver imparato da piccolo, "Fra'
Martino Campanaro" ... Dopo che hanno finito il pezzo dico alla maestra che lo cantavo anch'io da piccolo
e mi esibisco in un canto che alla fine suscita prima sorpresa per tutti e poi una risata generale quando dico
che non ho mai capito perché il maestro mi proibiva di cantare. Non oso chiedere di far foto o riprese
perché ho sempre imbarazzo a farlo. Ma come in tutta Tonga si stupiscono se non tiri fuori la macchina fotografica, sono
loro che chiedono di fotografarli, naturalmente senza secondi fini come succede ormai in diversi paesi. I
bambini continuano a guardare la videocamera e allora la appoggio su un banco, rivolgo verso loro il display,
l'accendo, schiaccio il tasto REC e mi allontano e cerco di controllarla col telecomando. All'inizio sono timorosi poi quando si rendono conto
che nel display si vedono loro, cominciano a combinarne di tutti i colori, alcuni si esibiscono in versi,
altri fanno le boccacce, altri più timidi guardano estasiati... Chiedo alla maestra se hanno la televisione
sull'isola. No, hanno solo un tv/videoregistratore che è di proprietà di una chiesa e che ogni tanto viene
usato per vedere qualche cassetta che arriva dalla capitale. Film pochissime volte, la maggior parte
registrazioni di funzioni religiose. Un paio di volte l'anno lo portano a scuola e guardano un paio di
cortometraggi sulle tradizioni dell'isola e alcuni filmati con il Re ecc. Non mi sembra che soffrano la mancanza della TV, li trovo molto sereni, sorridenti e felici.
Questa è stata una delle tante occasioni in cui mi sarei strappato i capelli per aver dimenticato a casa la
mia Polaroid... |

il lungomare |

e adesso a casa per il pranzo |
e poi a giocare... |

niente playstation... |

siesta |

gruppo familiare |
centro città |
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vengono a riprenderci |
relitto sulla spiaggia di Nomuka Iki |
una spiaggia di Nomuka Iki |
Dopo la scuola giriamo per l'isola, non esiste un villaggio propriamente detto,
sono tante "abitazioni" abbastanza staccate una dall'altra, ognuna con bellissimi giardini decorati
con tutti i tipi di piante tropicali. In questo periodo sono spettacolari quelle che noi chiamiamo
"stella di Natale", qui è pieno inverno ed è il momento in cui le foglie si colorano di rosso vivo
e in alcune varietà di bianco. Ci sono parecchi campi coltivati a taro, patata dolce, banane. In alcune zone ci sono
coltivazioni molto estese di pandano e di palme da cocco. Da ogni angolo escono
maiali e porcellini, ci sono parecchi cavalli che sono il mezzo di trasporto più comune (mi hanno detto che
ci sono un paio di auto, ma non le ho viste e non ne capisco l'utilità in quanto l'isola è abbastanza
piccola e poi ci sono solo piste sterrate)
e per la prima volta vedo a Tonga una pecora che sta allattando i suoi agnellini.
Camminando per una specie di sentiero parallelo alla costa passiamo da un piccolo cimitero tradizionale che, a
differenza di quelli che si vedono in altre isole, non è molto decorato. Si sente da lontano un rumore sordo,
come se fosse un aereo, strano... invece arriviamo ad una costruzione a due piani in cemento armato e ferro e
scopriamo che il rumore è quello di un generatore che alimenta una macchina per la produzione di ghiaccio. Il
capitano apre una specie di botola e mi fa prendere una manciata di ghiaccio tritato... che mi da una
bellissima sensazione di fresco. Non so se è potabile o no ma non resisto e me ne mangio una bella dose.
Ahhhhhhh, se avessi con me uno sciroppo di tamarindo o di mandorle, mi farei una granita come si deve...
Questo edificio col generatore di ghiaccio è stato costruito con l'aiuto dei giapponesi
diversi anni fa e serve sia per gli
abitanti che soprattutto per i pescherecci che in questo modo riescono a portare il pesce appena pescato sino
alla capitale dell'arcipelago delle Ha'apai, Pangai e addirittura fino al mercato del pesce della capitale
Nuku'alofa
Piano piano torniamo verso l'ansa dove eravamo sbarcati perché abbiamo visto da lontano che dalla barca sta
arrivando il tender per riprenderci.
Pranziamo e ci pigliamo una breve pausa e siamo subito pronti per ripartire alla scoperta dell'isolotto di
fronte a Nomuka, che si chiama Nomuka Iki (Iki significa "piccola"). Da un veliero neozelandese che
è arrivato da poco nella baia scendono a turno i passeggeri. Arrivano da Nuku'alofa, la capitale e dalle
facce sembrano abbastanza provati... Qualcuno di loro mi dice che era la seconda tappa, sono partiti da
Auckland e andranno sempre più a nord, probabilmente fino a Samoa.
Nomuka Iki una volta era un carcere, ora è disabitata. L'unica traccia che rimane è il relitto di una
motovedetta della guardia costiera tongana che è stata scagliata sui coralli da un ciclone parecchi anni fa.
Come al solito mi dedico all'esplorazione delle spiagge e dell'interno e ad un certo punto vedo Lina, la
nostra "assistente" che si sbraccia per chiamarmi, la raggiungo proprio mentre sta versando
"l'afternoon tea" e ce lo offre accompagnato da fette di una buonissima torta al cocco fatta
da lei.
Intanto il tempo sembra stia peggiorando, l'acqua non è più tranquilla, e decidiamo di ritornare sulla barca
prima che si alzino troppo le onde e facciano cambiare strada alla torta di cocco. A pochi metri dalla barca
incomincia a diluviare... meno male che siamo arrivati in tempo ! Ma quando il capitano dice a L. se vuole le
pastiglie per il mal di mare da prendere la sera comincio a preoccuparmi. Stanotte dobbiamo attraversare il
tratto di mare aperto tra l'arcipelago di Ha'apai e quello di Tongatapu.
Speriamo in bene ! L'Oceano Pacifico è pacifico solo di nome... l'onda lunga si farà sentire ?
Continua... |
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Nomuka, notizie storiche
illustrazione da un'edizione francese del diario di Abel Tasman

dopo 350 anni non è cambiato molto nel paesaggio...
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Nomuka, al di fuori delle rotte turistiche odierne (non ha nemmeno una guest house e si fermano raramente
barche a vela e non è nemmeno sulla rotta dei ferry che fanno servizio tra i vari arcipelaghi di Tonga), è
sempre stata importante nella storia sia dei polinesiani che dei primi europei per le sue riserve di acqua
dolce. Al suo interno ha anche un lago di acqua salmastra.
Il primo europeo che la raggiunse fu l'olandese Abel Tasman nel 1643 che la chiamò Rotterdam e vi rimase dal
25 gennaio al primo di febbraio. Il 27 giugno
1774 gettò l'ancora James Cook, che la chiamò con una storpiatura del nome originale, Annamocka ( o
Anamooka). |
da "Giornali di bordo nei viaggi d'esplorazione - Il
viaggio della Resolution e dell'Adventure 1772-1775" del Cap. James Cook.

particolare dell'isola di Nomuka (Annamooka) da una mappa del 1830
le linee indicano la rotta del Cap. Cook
Lunedì 27 giugno 1774
Brezze leggere e tempo piacevole. Nel pomeriggio, non avendo incontrato nulla che ci ostacolasse, alle cinque abbiamo ancorato sul lato settentrionale di Annamocka a circa tre quarti di miglio da terra, in venti braccia d'acqua, con fondo di sabbia corallifera; gli estremi dell'isola si estendono da S 88° E a SW, con una insenatura con spiaggia sabbiosa per S 50° Est.
Non appena ci avvicinammo all'estremità Sud dell'isola, numerosi indigeni ci vennero incontro con le loro canoe, e uno di essi domandò di me facendo il mio nome, prova che questa gente è in comunicazione con l'Isola di Amsterdam; appena ancorato, sono venuti sottobordo con ignami e pompelmi che scambiarono con piccoli chiodi e vecchi stracci.
La mattina presto sono andato a terra col pilota in cerca di acqua dolce; siamo stati ricevuti con grande cortesia dagli indigeni e accompagnati a uno stagno di acqua salmastra, lo stesso di cui, suppongo, si era servito Tasman.
Nel frattempo quelli dell'imbarcazione l'avevano caricata di frutta e radici che gli indigeni avevano portato e scambiato con chiodi e perline; e al nostro ritorno a bordo vi trovammo lo stesso traffico. Dopo colazione sono andato a terra con due imbarcazioni per trafficare e ho dato ordine che la lancia grande ci seguisse per fare l'acquata. Gli indigeni ci hanno aiutato a ruzzolare i barili dalla lancia allo stagno e viceversa, distanza di circa un terzo di miglio; la spesa per la loro prestazione era di una perlina o un chiodo piccolo. Frutta e radici furono portate in tale quantità, che le altre due imbarcazioni furono caricate in un baleno, rimandate a bordo, scaricate e ricaricate un'altra volta per mezzogiorno, quando anche la lancia grande era stata caricata e i gruppi degli erborizzatori e cacciatori erano tutti rientrati. Mancava soltanto il medico, che però non potemmo aspettare perché con la bassa marea l'acqua stava uscendo rapidamente dall'insenatura.
Martedì 28 giugno 1774
Nel pomeriggio la lancia grande non è potuta andare a fare l'acquata perché a causa della bassa marea non poteva entrare nell'insenatura dove avevamo preso terra prima e da dove avevamo tolto la nave; tuttavia, subito fuori l'insenatura e vicino alla punta meridionale c'è un buon posto per sbarcare in qualunque fase della marea. Alcuni ufficiali vi sono sbarcati dopo pranzo e hanno trovato il medico, a cui avevano portato via il moschetto: era arrivato infatti al punto d'imbarco poco dopo che le imbarcazioni se n'erano andate, e aveva trovato una canoa per farsi portare a bordo, ma si era appena imbarcato che un tipo gli aveva strappato di mano il fucile e era scappato con la preda.
Appena appreso il fatto, mi affrettai a andare a terra per paura che la nostra gente, per ricuperare il moschetto, prendesse qualche iniziativa che io avrei potuto non approvare. Presi due imbarcazioni e andai a sbarcare nel punto che ho già indicato più sopra; la poca gente che vi si trovava si dileguò al mio avvicinarsi. Lasciai lì le imbarcazioni e andai alla ricerca della mia gente, che trovai nei pressi della spiaggia nell'insenatura dove eravamo stati la mattina, attorniata da molti indigeni. Non avevano preso alcuna iniziativa per ricuperare il moschetto, né credetti opportuno prenderne io, perché seccato dalle circostanze in cui era stato perduto; ma in questo avevo torto e non facevo che aggiungere un errore a un altro. La mia indulgenza in questo affare e la facilità con la quale avevano ottenuto il moschetto, che ritenevano ormai in loro sicuro possesso, incoraggiavano gli indigeni a commettere atti di maggior violenza, come si vedrà fra poco.
Quando gli indigeni videro che nessuno li molestava a ragione del furto, portarono la loro frutta eccetera alle imbarcazioni, tanto che a sera eravamo notevolmente carichi e tornammo tutti quanti a bordo.
La mattina di buon'ora il tenente di vascello Clerke e il pilota con quattordici o quindici persone andarono con la lancia grande a fare l'acquata, e io intendevo seguirli immediatamente con un'altra imbarcazione, ma sfortunatamente rimandai la cosa a dopo colazione. La lancia era appena arrivata a terra che fu subito circondata dagli indigeni, che si comportarono in modo così brutale che gli ufficiali rimasero nel dubbio se fare o no l'acquata; ma visto che mi aspettavano a terra da un momento all'altro, sbarcarono i barili e con gran difficoltà li riempirono e li rimisero nell'imbarcazione. Durante questa operazione fu strappato di mano e portato via il moschetto al tenente di vascello. A parecchi altri della gente furono strappate di dosso una cosa o un'altra, e alcuni utensili dei bottai furono portati via. I nostri spararono uno o due colpi di moschetto, ma senza effetto, sempre per non voler uccidere nessuno degli indigeni finché era possibile evitarlo.
Io arrivai a terra quando la lancia era pronta a largare e allora il signor Clerke mi informò di quanto era successo. Decisi prontamente di obbligare gli indigeni a restituire tutto quanto, e a tale scopo ordinai che i marines fossero subito mandati a terra, e nel frattempo rimasi lì con una sola imbarcazione. Parecchi indigeni rimasero lì intorno, comportandosi però con la loro solita cortesia; ma io feci comprendere così chiaramente quali erano le mie intenzioni, che il moschetto del signor Clerke mi fu riportato immediatamente; tuttavia cercarono molti pretesti per distogliermi dall'insistere per riavere anche l'altro moschetto.
Alla fine arrivarono i marines, che misero gli indigeni in tale allarme che alcuni scapparono a gambe levate; riuscii tuttavia a trattenerne la maggior parte; il primo atto che feci fu di impadronirmi di due grandi canoe doppie a vela che si trovavano nell'insenatura. A un uomo che faceva una certa resistenza feci sparare con carica ridotta, e fuggì zoppicando. Gli indigeni, convinti ora che facevo sul serio, filarono via come un sol uomo, ma al mio richiamo molti tornarono indietro e alla fine anche l'altro moschetto mi fu riportato: allora ordinai che le canoe fossero restituite per dimostrare che me n'ero impadronito soltanto per quello scopo, visto che le altre cose che avevamo perduto non erano di nessun valore.
Intanto la lancia grande era tornata a terra per fare un altro carico d'acqua e potemmo riempire i barili senza che neppure un solo uomo osasse avvicinarsi. Detti ordine che fosse senz'altro alzata non appena scaricata perché l'acqua che avevamo imbarcato non valeva tutto il disturbo che ci aveva causato.
Di ritorno dal posto dell'acquata, trovammo alcuni indigeni riuniti vicino alla spiaggia e da essi apprendemmo che l'uomo al quale avevo fatto sparare era matte (morto). Considerai la storia come poco probabile e domandai a uno degli indigeni, che sembrava di una certa importanza, che restituissero un'ascia che ci era stata portata via quella mattina e gli dissi di mandarla a prendere; a ricuperarla furono inviati due uomini; ma ben presto mi resi conto che non ci eravamo capiti affatto, perché invece dell'ascia mi fu portato il ferito sdraiato su un'asse e deposto ai miei piedi, in apparenza morto.
Ma ben presto ci accorgemmo del nostro errore: pur essendo stato colpito a una mano e a una coscia, sia l'una sia l'altra ferita non erano pericolose. Tuttavia mandai a chiamare il medico perché venisse a terra per medicargli le ferite, e allo stesso tempo mi rivolsi a parecchie persone chiedendo che mi venisse restituita l'ascia, indirizzandomi specialmente a una donna anziana che aveva avuto sempre molto a che dire con me dal primo momento che avevo messo piede a terra. In questa occasione dette piena libertà alla sua lingua, ma su cinquanta parole non ne compresi neppure una. Tutto quanto potei arguire dalle sue argomentazioni fu che era meschino da parte mia insistere tanto per riavere un oggetto così insignificante; ma quando capì che ero deciso, lei stessa e altre tre o quattro donne se ne andarono, e poco dopo l'ascia mi fu riportata. Ma non ebbi modo di rivedere lei, e mi dispiacque, perché avrei voluto farle un regalo per la parte che aveva sempre preso in tutte le nostre transazioni, tanto private quanto pubbliche.
Infatti la prima volta che ero ritornato dallo stagno dopo essere sbarcato a terra, questa donna e un uomo mi avevano presentato una giovane donna lasciandomi comprendere che era a mia disposizione. La ragazza però, che probabilmente era stata opportunatamente istruita, pretendeva come semplice anticipo una camicia e un chiodo, e questi due oggetti dovevano esserle dati insieme alla camicia che avevo addosso, cosa che non ero affatto disposto a fare. Le feci subito presente la mia povertà e credetti così di essere uscito dall'impiccio a bandiere spiegate; ma sbagliavo. Infatti mi fecero intendere che avrei potuto prendermi la ragazza a credito e non appena feci capire che neanche questa soluzione mi andava, la vecchia si mise prima a discutere con me e quando vide che era inutile, si mise a insolentirmi. Capii assai poco di quanto mi disse, ma i suoi gesti erano sufficientemente espressivi e mostravano assai bene che cosa intendeva: ridendomi in faccia, mi diceva che razza d'uomo ero mai per rifiutare gli abbracci di una donna così bella e giovane, e infatti la ragazza non mancava di bellezza e avrei potuto anche sopportarla, ma gli insulti della vecchia no, e mi affrettai, quindi, a tornare alla mia imbarcazione. Allora insisterono perché mi portassi la ragazza a bordo, ma questo non era possibile perché avevo deciso di non permettere a nessuna donna di venire a bordo sotto qualsiasi pretesto e avevo dato in proposito precisi ordini agli ufficiali per ragioni che chiarirò in altra sede.
Quando il dottore arrivò, si mise subito a curare le ferite dell'uomo e espresse l'opinione che non correva alcun pericolo perché le pallottole avevano fatto poco più che trapassare la pelle. Per curare bene le ferite ci volevano dei cataplasmi e il dottore chiese delle banane ben mature; ma gli portarono invece delle canne da zucchero e masticando le ridussero in poltiglia, che poi gli diedero da applicare sulle ferite; essendo queste più balsamiche delle altre, si dimostra che questa gente conosce bene le erbe medicinali.
Dopo che le ferite dell'uomo furono medicate, io gli detti un chiodo ben puntuto e un coltello, oggetti di gran valore per loro. Il suo padrone, o per lo meno l'uomo che sembrava essere il proprietario della canoa, li prese e molto probabilmente se li tenne per sé. È stato un peccato che quest'uomo non fosse dell'isola, dove era invece venuto da poco con una delle due canoe a vela da un'altra isola nelle vicinanze. Messe tutte le cose a posto, siamo tornati tutti sulla nave per il pranzo.
* Sono stato ora informato di un fatto che è stato osservato a bordo: parecchie canoe erano sottobordo quando i cannoni più grossi fecero fuoco al mattino, e tutte si ritirarono, tranne un uomo che stava sgottando l'acqua dalla sua canoa, che si trovava direttamente sotto i cannoni. Quando il primo cannone fece fuoco, dette appena un'occhiata in alto e poi, del tutto indifferente, continuò il suo lavoro; né la seconda cannonata ebbe maggior effetto su di lui, che non si mosse finché tutta l'acqua della sua canoa non fu sgottata: solo allora, remando molto tranquillamente, se ne andò.
Quest'uomo era stato più volte visto prendere frutta e tuberi da altre canoe e venderli poi a noi; se i proprietari non accettavano di dividerli volontariamente con lui, se li prendeva con la forza, il che gli valse l'appellativo di "doganiere". Una volta, dopo aver raccolto questi tributi, gli capitò di essere a bordo con una canoa a vela; uno dell'equipaggio di questa, vedendo che era intento a guardare in un'altra direzione o era impegnato a fare una cosa o un'altra, approfittò dell'occasione per alleggerire la canoa di una parte del suo carico; poi, mollati gli ormeggi, misero alla vela; ma l'uomo, accortosi del trucco che gli avevano combinato, partì come una freccia al loro inseguimento e presto piombò a bordo, picchiò ben bene l'uomo che gli aveva preso le sue cose, e non si contentò di ricuperarle, ma si portò via anche un bel po' della roba degli uomini della canoa. Quest'uomo era stato anche visto raccogliere roba nel punto della spiaggia dove si facevano usualmente gli scambi. Mi ricordo di averlo visto là proprio per prendersi quanto gli spettava come tributo: allora, pensando che fosse uno di una certa importanza, stavo per fargli un regalo, ma alcuni degli indigeni presenti me lo avevano impedito, dicendomi che lui non era un areeke, ossia un capo. Aveva i capelli sempre incipriati con una specie di polvere bianca.
Essendo il signor Cooper e io tutti e due a terra a mezzogiorno, il signor Wales non ha potuto caricare il cronometro all'ora solita, e siccome non siamo tornati a bordo che nel tardo pomeriggio, ci siamo dimenticati di caricarlo finché si è fermato. Ma questo fatto non ha avuto gravi conseguenze, perché il signor Wales aveva preso varie altezze di sole in questo luogo prima che il cronometro si fermasse e qualcuna anche dopo.*
Mercoledì 29 giugno 1774
Avendo a bordo abbondanti provviste di tuberi e frutta, ho deciso di partire non appena avessimo avuto vento favorevole, perché per il momento c'era calma. In serata sono andato a terra col signor F. e qualche altro ufficiale; questi sono andati a fare una piccola escursione nell'interno dell'isola, ma io non ho lasciato il punto di sbarco. Gli indigeni si dimostravano ovunque molto docili e gentili, tanto che se avessimo fatto una più lunga permanenza non avremmo più avuto motivo di lagnarci della loro condotta.
Approfittando di questa mia presenza a terra, ho appreso i nomi di venti isole che si trovano tra NW e NE, alcune delle quali in vista. Due che giacciono più a Ovest erano notevoli per la grande altezza, e in quella più a Ponente ritenemmo dovesse esserci un vulcano a giudicare da una colonna di fumo che si vedeva salire continuamente dal centro dell'isola.
vista di Nomuka (illustrazione da una delle prime ed. dei viaggi di Cook)
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Nell'aprile del 1789, il Bounty, comandato dal cap. Blight, si fermò qui per fare provvista di acqua. Si
avvicinò con le scialuppe Fletcher Christian che non sbarcò perché gli indigeni sembravano ostili. Al
ritorno sulla nave ebbe una accanita discussione col capitano Blight che gli diede del codardo perché non
volle usare le armi da fuoco contro i nativi. Questa discussione, insieme alla disciplina ferrea imposta dal
capitano, fu una delle tante che portarono l'equipaggio del Bounty all'ammutinamento che avvenne
pochi giorni dopo di fronte all'isola vulcanica di Tofua, non molto distante da Nomuka, dove vennero sbarcati Blight e
18 marinai a lui fedeli. Uno di questi fu ucciso (e si dice mangiato) dagli abitanti dell'isola, costringendo
gli altri a fuggire sulla scialuppa che avevano lasciato loro gli ammutinati. Arrivarono dopo 6500 km di
navigazione all'isola di Timor. Fletcher Christian, dopo che una parte degli ammutinati tornò a Tahiti,
sbarcò con gli altri a Pitcairn. |
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