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PAPALAGI Discorsi
del capo TUIAVII DI TIAVEA delle Isole Samoa Tuiavi,
un saggio capo indigeno delle Isole Samoa, compì un viaggio in Europa
agli inizi del 1900, venendo a contatto con gli usi e costumi del
"Papalagi", l'uomo bianco. Ne trasse delle impressioni
folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal
fascino perverso dell'occidente. Erich
Scheurmann, amico di Hermann Hesse, fuggito nei mari del Sud per evitare
la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo
pubblicò. Papalagi
è un trattato etnologico sulla tribù dei bianchi, esilarante e feroce. Indice
degli argomenti trattati
Introduzione Tuiavii
non ebbe mai intenzione di presentare in Europa questi discorsi e tanto
meno di farli stampare; essi erano concepiti esclusivamente per le sue
genti polinesiane. Tuttavia è importante sapere con quali occhi un uomo
ancora così strettamente legato alla natura vede noi e la nostra civiltà.
Attraverso i suoi occhi impariamo a vedere noi stessi da un angolo di
visuale che non potrebbe mai essere nostro. Questi
discorsi rappresentano un richiamo a tutti i popoli primitivi dei mari
del sud a tenersi lontani dai popoli cosiddetti illuminati del
continente europeo. Tuiavii, era convinto che i suoi antenati avevano
commesso un gravissimo errore lasciandosi sedurre dalle luci
dell'Europa. Egli
possedeva in straordinaria misura il dono di saper vedere in maniera
obiettiva, libera da ogni preconcetto. Nulla lo poteva accecare, e non
v'erano parole che potessero distoglierlo da una verità. Egli vedeva
per cosi dire la cosa in sé. Horn
in Baden, 1920 PAPALAGI Discorsi
del capo TUIAVII DI TIAVEA delle Isole Samoa 1.
Del ricoprirsi del Papalagi, del suoi molti panni e stuoie IL
PAPALAGI è continuamente preoccupato di coprire ben bene la sua carne.
"Il corpo e le sue membra sono carne, solo quello che sta sopra il
collo è il vero uomo"; così dunque mi disse un bianco che godeva
di grande prestigio ed era considerato molto saggio. Voleva dire che
degna di considerazione è solo la parte dove hanno dimora lo spirito e
tutti i buoni e i cattivi pensieri. La testa. Quella, e in caso estremo
anche le mani, il bianco le lascia volentieri scoperte. Sebbene anche la
testa e le mani altro non siano che carne e ossa. Chi lascia vedere la
propria carne, non può più vantare alcun diritto di essere chiamato
civile. Quando un giovane sposa una fanciulla, non sa mai se è stato
imbrogliato, perchè‚ non ha mai visto il suo corpo. La
carne è peccato. Così dice il Papalagi. Poiché‚ il suo spirito è
grande grazie al suo pensiero. Il braccio che si leva per il lancio
nella luce del sole, è una freccia del peccato. Il petto su cui
ondeggia l'onda del respiro, è la dimora del peccato... Le membra con
le quali la vergine ci offre una danza sono peccaminose. E anche le
membra che si toccano per fare la creatura a gioia della grande terra,
sono peccato. Tutto è peccato ciò che è carne. In ogni tendine c'è
un veleno, un subdolo veleno che passa da creatura a creatura. Chi anche
solo guarda la carne, sugge il veleno, ne è ferito, è altrettanto
riprovevole e perverso quanto colui che la mette in mostra. Così dunque
dicono le sacre leggi morali dell'uomo bianco. Anche
per questo il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di
panni, stuoie e pelli, in maniera cosi fitta e spessa che non un occhio
umano vi può giungere, non un raggio di sole, Così che il suo corpo
diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel
profondo della foresta vergine. Lasciate
che vi descriva, più ragionevoli fratelli delle molte isole, quale peso
un solo Papalagi porta sul suo corpo. Prima di tutto, sotto ogni altra
cosa, egli avvolge il suo corpo nudo in una pelle bianca, ottenuta con
le fibre di una pianta, chiamata pelle di sopra. La si solleva e la si
lascia ricadere dall'alto verso il basso, da sopra la testa, sul petto e
sulle braccia, fino all'altezza dei fianchi. Sopra le gambe e le cosce e
fino all'ombelico, tirata dal basso verso l'alto, viene la cosiddetta
pelle di sotto. Entrambe sono poi ricoperte da una terza pelle, più
spessa, intessuta con i peli di un animale, un quadrupede lanoso, che
viene allevato appositamente a questo scopo. Questi sono i veri e propri
panni e consistono per lo più di tre parti, una che copre il busto,
l'altra l'addome e la terza le cosce e le gambe. Le tre parti sono
tenute insieme da conchiglie e funi fabbricate con i succhi disseccati
dell'albero della gomma, Così che da ultimo sembrano fatte di un pezzo
solo. Questi panni sono nella maggior parte dei casi di un colore grigio
come la laguna nella stagione delle piogge. Non devono mai essere
colorati. Tutt'al più quello di mezzo, e anche qui soltanto per gli
uomini che amano far parlare di s‚ e corrono molto dietro alle donne. I
piedi infine vengono avvolti in una pelle morbida e in una molto rigida.
Quella morbida è per lo più elastica e si adatta facilmente al piede,
al contrario di quella rigida. Anche questa è fatta con la pelle di un
robustissimo animale, la quale viene lasciata a bagno nell'acqua, poi
raschiata con un coltello, battuta e stesa al suolo fino a che si è
completamente indurita. Con questa il Papalagi si costruisce poi una
sorta di canoa dal bordo molto alto, grande giusto quanto basta per
farvi entrare il piede. Queste barche da piedi vengono poi legate e
allacciate con cordoni e ganci intorno alla caviglia, così che il piede
resta chiuso in un rigido guscio, come il corpo di una lumaca di mare.
Queste pelli da piedi il Papalagi se le porta addosso dal levar del sole
fino al tramonto, con esse fa i suoi viaggi, danza e le porta anche
quando fa caldo come dopo la pioggia tropicale. Poiché‚
tutto ciò è assai innaturale, come il bianco del resto ben comprende,
e rende i piedi come morti, tanto che cominciano a puzzare, e poiché‚
in effetti la maggiore parte dei piedi europei non sanno più afferrare
una cosa o arrampicarsi su una palma, per tali ragioni il Papalagi cerca
di nascondere la sua follia ricoprendo la pelle di questo animale, che
al naturale sarebbe rossastra, con molto sudiciume, che poi rende lucido
a furia di strofinare, così che gli occhi non possono sopportarne il
luccichio e si volgono altrove. Una
volta, in Europa viveva un Papalagi che divenne famoso e dal quale
andava molta gente, perché‚ diceva loro: "Non è bene che
portiate ai piedi pelli così strette e pesanti, andate a piedi nudi
sotto il cielo, fintanto che la rugiada della notte copre i prati, e
tutte le malattie si allontaneranno da voi". Quest'uomo era molto
sano e saggio; ma tutti hanno sorriso di lui e lo hanno presto
dimenticato. Anche
la donna porta come l'uomo molte stuoie e panni intorno al corpo e
intorno alle gambe. La sua pelle è perciò tutta segnata da cicatrici e
ferite a causa dei lacci. I seni sono vizzi e spenti e non danno più
latte, per l'oppressione di una stuoia che lei si lega intorno al petto,
dal collo fino al basso ventre, e anche sulla schiena, una stuoia
indurita e irrigidita con ossa di pesce, filo di ferro e vari legacci.
Perciò la maggior parte delle madri non possono più allattare i propri
figli e devono dare loro il latte in un rotolo di vetro, chiuso sotto e
munito al di sopra di un capezzolo finto. E non è neppure il proprio
latte, quello che danno loro, ma il latte di brutti animali rossastri e
cornuti ai quali viene tolto con la forza, premendolo fuori da quattro
tappi che hanno sotto la pancia. Per
il resto i panni delle donne e delle fanciulle sono molto più sottili e
leggeri di quelli degli uomini, e possono anche essere variopinti e
luccicare tanto da essere visti da lontano. Inoltre lasciano anche
spesso intravedere collo e braccia e più carne di quelli degli uomini.
Tuttavia è considerata buona cosa che una fanciulla si copra molto e
allora la gente dice di lei con compiacimento: "E' casta", e
ciò sta a significare che rispetta le leggi dei buoni costumi. Perciò
non ho mai capito perché‚ in occasione delle grandi feste e dei
banchetti le donne e le fanciulle possono lasciar scoperta molta più
carne sul collo e sulle spalle, senza che ciò sia vergogna. Ma forse
questo rappresenta appunto il pepe della festa, che in tali occasioni
venga permesso ciò che non è consentito tutti i giorni. Solo
gli uomini tengono sempre ben coperti il collo e la schiena. Dal collo
fino ai capezzoli, le signore portano ben disteso un pezzo di panno
rigido, grande quanto una foglia di taro. Sopra di esso posa, legato
intorno al collo, un cerchio anch'esso bianco e rigido dello stesso
panno, e questo rigido anello egli lo cinge con una striscia di panno
colorato, che annoda come la fune di una barca e poi trafigge con un
chiodo d'oro o vi mette sopra una perla di vetro, e lascia che il tutto
gli penzoli davanti come un'insegna. Molti Papalagi portano anche rigidi
anelli di panno bianco ai polsi; mai però alle caviglie. Quell'insegna
bianca e gli anelli bianchi ai polsi sono di grande importanza. Un
Papalagi non compare mai senza questo ornamento davanti a una donna.
Cosa molto grave è quando il rigido anello è diventato nero e non
porta più nessuno splendore di luce. Molte signore importanti cambiano
perciò ogni giorno gli anelli bianchi e rigidi sia al collo, sia ai
polsi. Mentre
la donna possiede numerosi panni colorati da festa, che custodisce in
molte casse, collocate ritte in piedi, e si dà molto pensiero di quello
che indossa oggi o domani, se deve essere lungo o corto, e parla sempre
con molto amore degli ornamenti che ci deve mettere sopra, l'uomo ha di
solito un unico abito da festa e non ne parla quasi mai. Questa è la
cosiddetta giubba a coda di rondine, di panno nero come la notte, che in
fondo alla schiena finisce a punta, come la coda di un pappagallo della
foresta. Con questo abito da festa anche le mani devono avere una pelle
bianca, che ricopre strettamente tutte le dita, tanto che il sangue
ribolle e affluisce al cuore. Per tale ragione è talvolta anche
consentito che uomini ragionevoli tengano queste pelli solo in mano o
che le infilino dentro il panno, all'altezza del cuore. Non
appena un uomo o una donna lasciano la capanna per passare sulla strada,
subito si avvolgono in un ulteriore panno, che è pesante o leggero
secondo che brilli il sole o faccia freddo. Poi si coprono anche la
testa, gli uomini con un vaso nero e rigido, arrotondato e vuoto
all'interno, come il tetto di una casa delle Samoa; le donne invece con
grandi canestri e ceste rovesciate sui quali annodano fiori che non
sfioriscono mai, piume, strisce di panno, perle di vetro e altri
ornamenti di ogni genere. Assomigliano agli ornamenti che hanno sul capo
le vergini durante una danza di guerra, solo che questo è molto più
bello e anche nella danza o nella tempesta non può cadere. Gli uomini
sollevano questi vasi da testa a ogni incontro, in segno di saluto,
mentre le donne piegano solo lievemente in avanti il peso che portano
sul capo, come una barca mal caricata. Solo
la notte, quando il Papalagi brama la sua stuoia, egli si toglie di
dosso tutti quei panni, ma subito se ne infila un altro, un pezzo unico
aperto sui piedi, che lascia scoperti. Anche le donne e le fanciulle
portano questo panno da notte per lo più riccamente adorno intorno al
collo, sebbene di questo si veda ben poco. Non appena il Papalagi si è
steso sulla sua stuoia, subito si ricopre dalla testa ai piedi con le
piume strappate dalla pancia di un grande uccello e rinchiuse in un
grande telo perché‚ non possano disperdersi e volare via. Queste
piume inducono il corpo a sudare e il Papalagi così pensa di essere
steso al sole, anche quando non lo è. Perché, in realtà, del vero
sole il Papalagi non si interessa molto. E'
ora ben chiaro che, con tutte queste cose addosso, il corpo del Papalagi
diventa bianco e smorto, senza il colore della gioia. Ma lui ama fare
così. In effetti le donne, specialmente le fanciulle, sono preoccupate
di proteggere la pelle, perché non si arrossi nella grande luce, e a
loro difesa, non appena si espongono al sole, si aprono un tetto sopra
la testa. Come se il pallido colore della luna fosse loro più gradito
del colore del sole. Ma al Papalagi piace farsi in tutte le cose una
saggezza e una legge secondo il suo pensiero. Poiché il suo naso è
appuntito come il dente di un pescecane, lo trova bello; e il nostro,
che è sempre tondo e morbido, lo trova brutto, sgraziato, mentre noi
diciamo esattamente il contrario. Essendo
i corpi delle donne e delle fanciulle così accuratamente ricoperti, gli
uomini e i giovanetti provano un intenso desiderio di vedere la loro
carne, come è naturale. Notte e giorno ci pensano e parlano molto delle
forme delle donne e delle fanciulle, e sempre in modo che ciò che è
bello e naturale appaia un grande peccato, come qualcosa che può essere
visto solo nell'ombra più fonda. Se lasciassero vedere la carne più
apertamente, potrebbero dedicare i loro pensieri ad altre cose, e i loro
occhi non si storcerebbero e le loro bocche non pronuncerebbero parole
vogliose ogni volta che incontrano una fanciulla. Ma
la carne è peccato, è di demonio. C'è pensiero più stolto, cari
fratelli? Se si dovesse credere alla parola del bianco, si dovrebbe con
lui desiderare piuttosto che la nostra carne fosse rigida come lava e
priva di quel dolce calore che viene da dentro. Ma noi vogliamo ancora
rallegrarci della nostra carne che può parlare con il sole, di poter
muovere le gambe come il cavallo selvatico perché nessun panno le lega
e nessuna pelle appesantisce i piedi, di non essere costretti a fare
attenzione perché il nostro copricapo non ci cada dalla testa.
Godiamoci la gioia che ci dà la vergine che è bella nel corpo e mostra
le sue membra al sole e alla luce della luna. Stolto, cieco e senza il
senso della vera gioia è il bianco che deve tanto ricoprirsi per essere
senza vergogna. 2.
Dei cassoni di pietra, delle fessure di pietra, delle isole di pietra e
di ciò che vi sta frammezzo IL
PAPALAGI vive in un guscio solido come una conchiglia marina. Vive fra
le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono
tutt'intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un
cassone di pietra messo in piedi. Una
cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata. C'è
un solo punto in cui si può entrare e uscire da questa cassa di pietra.
Questa apertura il Papalagi la chiama ingresso quando entra nella
capanna, uscita quando ne esce fuori, sebbene entrambe siano una sola e
unica cosa. In questa apertura c'è una grande ala di legno che bisogna
spingere con forza per poter entrare nella capanna. Ma anche così si è
soltanto al principio e bisogna spingere ancora parecchie ali prima di
essere veramente nella capanna. La
maggior parte delle capanne sono abitate da più persone di quante ne
vivano in un solo villaggio delle Samoa, perciò è necessario sapere
con esattezza il nome della famiglia che si vuole andare a trovare.
Poiché ogni famiglia ha per sé una parte speciale della cassa di
pietra o sopra o sotto o più avanti. E una famiglia spesso non sa nulla
delle altre, nulla di nulla, come se fra loro non ci fossero solo pareti
di pietra, ma Manono, Apolima, Savaii (tre delle isole Samoa, n.d.r.) e
molti mari. Spesso sanno appena il loro nome, e quando s'incontrano nel
buco da cui si entra si fanno solo di malavoglia un cenno di saluto o si
borbottano dietro come insetti ostili. Come se fossero infastiditi di
vivere l'uno accanto all'altro. Se
la famiglia sta in alto, proprio sotto il tetto della capanna, allora
bisogna salire molti rami a zigzag o in tondo, fino a che si arriva al
punto dove il nome della famiglia sta scritto sul muro. Lì ci si trova
davanti un grazioso capezzolo femminile finto sul quale si preme fino a
che risuona un grido che chiama la famiglia. La famiglia guarda
attraverso un piccolo buco rotondo munito di piccoli ferri, per vedere
se si tratta di un nemico. In
tal caso non apre. Se invece riconosce l'amico, allora subito slega una
grossa ala di legno, accuratamente serrata, e la tira verso di s‚, in
modo che l'ospite attraverso il passaggio possa entrare nella capanna
vera e propria. Questa è a sua volta divisa da molte ripide pareti di
pietra, e si passa di ala in ala, da un cassone a un altro cassone
sempre più piccolo. Ogni cassone, che il Papalagi chiama stanza, ha un
buco (quando è grande anche due o tre) attraverso il quale entra la
luce. Questi buchi sono chiusi con un vetro, che si può togliere quando
si vuole far entrare aria fresca nei cassoni, cosa quanto mai
necessaria. Ci sono però anche molti cassoni senza buchi per l'aria e
per la luce. Un
samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui
non passa mai un soffio d'aria fresca come in qualsiasi capanna delle
Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d'uscita. Spesso
però anche l'aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a
capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia
dell'aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per
potersi levare in volo e andarsene dove c'è aria e sole. Ogni
cassone ha un suo uso particolare. Il più grande e più illuminato
serve per i ricevimenti e gli incontri della famiglia o per le visite,
un altro per dormire. Qui sono stese le stuoie, vale a dire esse stanno
sollevate su un traliccio di legno che ha delle lunghe gambe, affinché
l'aria possa passare sotto le stuoie. Un terzo cassone è per consumare
il cibo e per fare le nuvole di fumo, un quarto serve a raccogliervi le
scorte di cibo, nel quinto si cucina, e nell'ultimo e più piccolo ci si
bagna. Questo è il luogo più bello di tutti. E ricoperto di grandi
specchi, il pavimento è decorato con un rivestimento di pietra colorata
e nel mezzo c'è una grande conca di metallo o di pietra in cui scorre
acqua che è stata al sole e acqua che non è stata al sole. In questa
conca, che è molto grande, addirittura più grande della tomba di un
capo, ci si entra per ripulirsi e lavarsi di dosso la molta polvere dei
cassoni di pietra. Naturalmente ci sono anche capanne con più cassoni
ancora. Ce ne sono persino di quelle in cui anche ogni bambino ha il suo
cassone e anche ogni servo del Papalagi; sicuro, persino i suoi cani e i
suoi cavalli hanno i loro cassoni. Fra
questi cassoni il Papalagi trascorre dunque la sua vita. Sta ora in
questo, ora in quel cassone, secondo l'ora e il momento. I suoi figli
crescono qui, alti sopra la terra, spesso più alti di una palma adulta,
in mezzo alle pietre. Di tanto in tanto il Papalagi lascia i suoi
cassoni privati come lui li chiama, per trasferirsi in un altro cassone,
riservato ai suoi affari, per i quali non vuole essere disturbato e non
vuole avere intorno donne e bambini. In queste ore le donne e le
fanciulle stanno nella cucina e cuociono il cibo, o tirano a lucido le
pelli da piedi, o lavano panni. Quando sono ricche e possono tenere dei
servi, sono questi che fanno il lavoro, mentre loro vanno a fare visite
o a prendere nuove provviste. In
questa maniera vivono in Europa tante creature quante sono le palme che
crescono a Samoa, anzi, molte di più. Alcune hanno il desiderio di
boschi e di sole e di molta luce, ma questa in generale è considerata
una malattia che bisogna combattere dentro di s‚. Quando qualcuno non
è soddisfatto di questa vita di pietra, si usa dire che non è normale. Questi
cassoni di pietra si trovano spesso molto numerosi l'uno accanto
all'altro, come uomini spalla a spalla, e in ciascuno vivono tanti
Papalagi quanti ce ne sono in un villaggio delle Samoa. A un tiro di
pietra, dalla parte opposta, si leva un'altra fila di uguali cassoni,
anch'essi spalla a spalla, e anche in questi abitano tante persone. Così
fra le due file c'è soltanto una sottile fessura, che il Papalagi
chiama strada. Questa fessura spesso è larga quanto un fiume e coperta
di dure pietre. Bisogna camminare a lungo per trovare un tratto libero;
ma qui sfociano altre fessure frammezzo ad altre case. Anche queste sono
lunghe come ampi corsi d'acqua dolce e le loro aperture laterali sono
anch'esse fessure di pietra della stessa lunghezza. Cosi si può
camminare per giorni interi in queste fessure fino a perdersi, prima di
arrivare a vedere un bosco o un pezzo di cielo azzurro. Fra le fessure
solo di rado si vede il vero colore del cielo poiché, dal momento che
in ogni capanna si trova un fuoco e spesso anche molti fuochi, l'aria è
sempre piena di fumo e di cenere, come per l'eruzione di un grande
cratere. Quest'aria piove giù nelle fessure, così che gli alti cassoni
di pietra sembrano melma delle paludi e gli uomini hanno terra nera
negli occhi e nei capelli e sabbia fra i denti. Ma
tutto ciò non impedisce agli uomini di correre in queste fessure da
mattina a sera. Sicuro, ce ne sono molti che trovano in ciò uno
speciale piacere. In alcune di tali fessure in particolare c'è una gran
confusione e la gente vi scorre dentro come un denso limo. Queste sono
le strade in cui si trovano giganteschi cassoni di vetro dove stanno
esposte tutte le cose di cui il Papalagi ha bisogno per vivere: panni,
ornamenti, copricapi, pelli per le mani e per i piedi, provviste di
cibo, carne, e vero nutrimento come frutti e verdure e tante altre cose
ancora. Lì esse stanno esposte agli occhi di tutti, per attirare le
persone. Nessuno però può prendere qualcosa anche se ne ha grande
necessità, per far questo occorre uno speciale permesso e si deve fare
omaggio di un sacrificio. In
queste fessure i pericoli vengono da ogni parte, perché la gente non
solo corre intorno, viaggia e cavalca a destra e a sinistra, ma si fa
anche trasportare in grandi cassoni di vetro che corrono su nastri
metallici. Il fragore è grande. Le tue orecchie ne sono stordite, poiché
i cavalli battono con i loro zoccoli sulle pietre, gli uomini vi
camminano battendo con forza le loro dure pelli da piedi, i bambini
strillano, gli uomini urlano di gioia o di spavento, tutti gridano. In
tutto quel rumore non riesci neppure a farti capire. Tutto
questo insieme: i cassoni di pietra in cui vivono tante persone, le alte
fessure di pietra che corrono su e giù come mille fiumi, gli uomini che
vi camminano dentro, le grida, il rumore, la sabbia nera e il fumo sopra
ogni cosa, senza un albero, senza cielo azzurro, senza aria pulita e
senza nuvole, tutto questo è ciò che il Papalagi chiama una città.
Una sua creazione di cui va molto fiero. Sebbene qui vivano tante
persone che non hanno mai visto faccia a faccia un albero, mai un bosco,
mai cielo aperto, mai il Grande Spirito. Uomini che vivono come gli
animali che strisciano nella laguna e dimorano sotto i coralli, per
quanto questi almeno abbiano la limpida acqua del mare che li lava e il
sole che filtra con il suo fiato caldo. E' davvero fiero delle sue
pietre il Papalagi? Non lo so. Il Papalagi è un individuo con strani
pensieri. Fa molte cose che non hanno alcun senso e che lo rendono
malato, e tuttavia ne vanta i pregi e ne canta le lodi. Parlavo
dunque della città. Ci sono però molte città alcune grandi, altre
piccole. Le grandi sono quelle dove vivono i massimi capi di un paese.
Tutte le città sono sparse come le nostre isole nel mare. Talvolta si
trovano alla distanza di una semplice nuotata, spesso però anche a un
intero giorno di viaggio. Tutte le isole di pietra sono collegate fra di
loro da sentieri ben segnati. Ci si può arrivare però anche con la
nave di terra, che è lunga e sottile come un verme e sputa
continuamente fumo e scivola veloce su fili di metallo, più veloce di
una barca a dodici remi in piena corsa. Se invece vuoi mandare a un
amico che sta su un'altra isola solo un saluto non hai nessun bisogno di
andare da lui o di scivolare su quei nastri metallici. Soffi le tue
parole in fili di metallo, che vanno come lunghissime liane da un'isola
di pietra all'altra. E arrivano, più veloci di quanto possa volare un
uccello: Fra
tutte le isole di pietra c'è la cosiddetta campagna, come si chiama in
Europa. Qui la terra è bella e fertile come da noi. Ci sono alberi,
fiumi e foreste, e qui ci sono anche veri villaggi. Nonostante le
capanne siano anche qui di pietra, tuttavia sono circondate da piante
con molti frutti, e la pioggia le può bagnare da ogni lato e il vento
può poi asciugarle. In
questi villaggi vivono uomini con animo diverso da quelli di città. Si
chiamano contadini. Hanno mani più rudi e callose e panni più sporchi
degli uomini delle fessure, sebbene abbiano assai più da mangiare di
quelli. Ma loro non ci credono e invidiano quelli che chiamano
fannulloni, perché non devono toccare la terra e metterci la semente e
trarre i frutti. Vivono in ostilità con quelli, perché devono dare
loro il nutrimento che viene dalla terra, devono cogliere i frutti che
poi l'uomo delle fessure di pietra consuma, devono custodire e allevare
il bestiame fino a che è ben grasso e anche di questo devono poi cedere
loro la metà. In ogni modo devono faticare molto e procurare il cibo
per tutti gli uomini delle città, e non vedono bene la ragione per cui
costoro debbano avere panni più belli e mani più bianche e non siano
anch'essi a sudare sotto il sole e a gelare sotto la pioggia. Ma
l'uomo che vive nelle fessure di pietra di questo non si preoccupa
molto. E' convinto di aver maggiori diritti dell'uomo della campagna e
che le sue opere abbiano maggior valore che non il deporre o estrarre
frutti dalla terra. Questa inimicizia fra le due parti non è però tale
che fra loro vi sia guerra. In generale il Papalagi, sia che viva in
città fra le fessure, sia che stia in campagna, trova che tutto va bene
così com'è. L'uomo della terra ammira il regno degli uomini delle città
di pietra quando ci viene, e l'uomo delle fessure di pietra canta grandi
arie e gorgoglia quando passa nei villaggi dell'uomo della terra. L'uomo
delle fessure lascia che l'uomo della terra ingrassi innaturalmente i
maiali e questi lascia che l'uomo delle fessure di pietra costruisca i
suoi cassoni di pietra. Ma
noi, che siamo liberi figli del sole e della luce, vogliamo restare
fedeli al Grande Spirito e non vogliamo appesantirgli il cuore con le
pietre. Solo creature smarrite, malate, che non stringono più la mano
di Dio, possono vivere felici fra fessure di pietra senza sole, n‚
luce, n‚ vento. Concediamo al Papalagi la sua dubbia felicità, ma
spezziamo in lui ogni tentativo di costruire anche nelle nostre
soleggiate contrade i suoi cassoni e di uccidere la gioia di vivere con
pietre, fessure, sporcizia, rumore, fumo e sabbia, come è suo
intendimento. 3.
Del tondo metallo e della carta pesante RAGIONEVOLI
fratelli, ascoltate con fiducia e siate felici di non conoscere il male
dei bianchi e le loro angustie. Voi tutti mi siete testimoni che il
missionario dice: "Dio è amore. Un onesto cristiano farebbe bene a
tenersi sempre davanti agli occhi l'immagine dell'amore. Solo al grande
Dio va quindi anche la devozione del bianco". Ebbene, il
missionario ci ha mentito, ci ha ingannati, il Papalagi lo ha corrotto
affinché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il
tondo metallo e la carta pesante, ch'egli chiama denaro, questa è la
vera divinità dei bianchi. Quando
un europeo parla dell'amor di Dio, torce la faccia e sorride. Sorride
dell'ingenuità del tuo pensiero. Tendigli però un tondo pezzo di
metallo o una grande carta pesante, e allora subito i suoi occhi
s'illuminano e molta saliva gli giunge alle labbra. Il denaro è il suo
amore, il denaro è il suo Dio. Tutti i bianchi pensano a esso, anche
quando dormono. Ce ne sono molti le cui mani si sono fatte ricurve e
assomigliano nel gesto alle zampe delle grandi formiche della foresta,
per il tanto afferrare quel metallo e quella carta. Ce ne sono molti i
cui occhi si sono fatti ciechi a furia di contare il denaro. Molti che
per denaro hanno dato la gioia, il riso, l'onore, la coscienza, la
felicità, sì, persino la donna e il figlio. Quasi tutti perdono la
salute per il tondo metallo e la carta pesante. Se lo portano addosso
nei loro panni, fra dure pelli ben ripiegate. Di notte lo depongono
sotto il guanciale, perché nessuno glielo porti via. Ci pensano ogni
giorno, ogni ora, ci pensano ogni minuto. Tutti! Anche i bambini!
Devono, sono costretti a pensarci. La madre lo insegna loro e lo vedono
fare dal padre. Tutti gli europei. Quando passi nelle fessure di pietra
della Germania a ogni momento odi il grido: "Marco!" E di
nuovo: "Marco!" Lo senti dappertutto. Quello è il nome
ch'essi danno al tondo metallo e alla carta pesante. In Francia si
chiama franco, in Inghilterra scellino, in Italia lira. Marco, franco,
scellino, lira sono sempre la stessa cosa. Tutti vogliono dire denaro,
denaro e sempre denaro. Il denaro soltanto è il vero dio del Papalagi,
ciò che egli venera di più. D'altra
parte nelle terre dei bianchi non ti è neppure possibile restare, dal
levarsi al cadere del sole, senza denaro, del tutto senza denaro. Non
riusciresti a placare la tua fame e la tua sete, non troveresti una
stuoia per la notte. Ti chiuderebbero in una prigione e metterebbero il
tuo nome sui giornali perché sei senza denaro. Devi pagare, cioè dare
denaro, per il terreno su cui cammini, per la terra su cui sorge la tua
capanna, per la stuoia su cui dormi la notte, per la luce che illumina
la tua capanna. Pagare per poter tirare a un piccione, per poter bagnare
il tuo corpo nel fiume. Se vuoi andare là dove la gente si diverte,
dove si canta o si balla, oppure vuoi chiedere consiglio a un fratello,
per ogni cosa devi dare molto metallo rotondo e carta pesante. Devi
pagare per ogni cosa. Ovunque, trovi un tuo fratello che allunga la mano
e ti disprezza oppure si infuria se non ci deponi del denaro. E il tuo
umile sorriso e lo sguardo più affettuoso non ti sono d'aiuto per
addolcire il suo cuore. Lui spalancherà le fauci e ti griderà dietro:
"Miserabile! Vagabondo! Perdigiorno!" Tutte queste parole
hanno lo stesso significato e rappresentano la più grande vergogna che
possa ricadere su una persona. Sicuro, persino per la tua nascita devi
pagare, e quando muori la tua famiglia deve pagare per te, perché sei
morto e perché il tuo corpo possa trovare posto sottoterra come pure
per la grande pietra che faranno rotolare sulla tua tomba a eterno
ricordo. Ho
trovato una sola cosa per la quale in Europa non viene ancora richiesto
denaro e che ciascuno può usare nella quantità che vuole: l'aria da
respirare. Credo però che si tratti solo di una dimenticanza, e non
esito ad affermare che se in Europa qualcuno udisse queste mie parole,
subito penserebbe a far incassare metallo rotondo e carta pesante anche
per questo. Poiché tutti gli europei sono continuamente alla ricerca di
nuovi motivi per pretendere denaro. Senza
denaro in Europa sei un uomo senza testa, un uomo senza membra. Un
niente. Devi avere denaro. Ne hai bisogno per il cibo, per l'acqua da
bere, per il sonno. Quanto più denaro possiedi, tanto migliore è la
tua vita. Se hai denaro puoi avere in cambio tutto il tabacco che vuoi,
gli anelli o i panni più belli. Hai molto denaro? Puoi avere molto.
Perciò tutti ne vogliono avere molto. E ciascuno vuole averne di più
degli altri. Da qui l'avidità e l'occhio teso al denaro in ogni ora del
giorno. Getta un tondo metallo nella sabbia e i bambini vi si lanceranno
sopra, lotteranno fra di loro per prenderlo e chi lo afferra e lo tiene,
il vincitore, è felice. Ma raramente qualcuno getta denaro nella
sabbia. Da
dove viene il denaro? Come puoi arrivare ad avere tanto denaro? Oh, in
molte e diverse maniere, facili e difficili. Quando tagli i capelli a un
tuo fratello, quando gli strappi le erbacce davanti alla capanna, quando
conduci una canoa sull'acqua, quando hai un pensiero importante. Sì,
per amore di giustizia va detto: anche se tutto richiede molta carta
pesante e metallo rotondo, è anche facile ottenerne per tutto ciò che
fai. Basta che tu ti dia da fare, cosa che in Europa si chiama lavorare.
"Lavora e avrai denaro", dice una delle regole degli europei. In
ciò regna però una grande ingiustizia, sulla quale il Papalagi non
riflette, non vuole riflettere perché in tal caso dovrebbe ammettere la
sua stessa ingiustizia. Non tutti coloro che hanno molto denaro lavorano
molto. (Sicuro, tutti vorrebbero avere molto denaro senza però
lavorare). E questo succede così: quando un bianco guadagna tanto
denaro da avere la sua capanna, il suo cibo e la sua stuoia, e oltre a
questo anche molte altre cose, subito per il denaro che ha in più fa
lavorare il fratello. Per s‚. Gli dà per prima cosa il lavoro che ha
reso dure e sporche le sue mani. Gli fa portare via gli escrementi che
lui stesso ha deposto. Se si tratta di una donna, allora si prende una
fanciulla che lavori per lei. E costei deve ripulire le stuoie sporche,
lavare le ciotole, pulire le pelli da piedi, accomodare i panni
strappati e non deve far nulla che non serva a lei. In questo modo lui o
lei hanno tempo per fare altri lavori più lieti, più importanti e più
gravi, per i quali viene pagato più denaro, un lavoro che lascia le
mani più pulite e i muscoli più contenti. Se è un costruttore di
barche, l'altro deve aiutarlo a costruire le barche. Del denaro che
costui guadagna dandogli il suo aiuto, e che quindi dovrebbe appartenere
a lui solo, l'altro gliene prende una parte, e cioè la parte più
grossa, e non appena gli è possibile prende a lavorare per s‚ due
fratelli, e poi tre, e sempre in maggior numero devono lavorare per lui
a costruire imbarcazioni, e alla fine sono cento e anche più. Fino a
quando lui non ha più niente altro da fare che stendersi sulla sua
stuoia, bere kava (bevanda narcotica estratta dalla radice della omonima
pianta, n.d.r.) europea e bruciare rotoli di tabacco, poi consegnare le
barche finite e farsi portare il metallo o la carta che gli altri hanno
guadagnato lavorando per lui. Poi la gente dice: "E' ricco".
Lo invidiano e lo lusingano in molte maniere e gli dicono parole
sonanti. Poiché il valore di un uomo nel mondo del bianco non è la sua
nobiltà o il suo coraggio o lo splendore del suo pensiero, ma la
quantità di denaro, quanto ne può fare in un giorno, quanto ne
conserva nella sua grossa cassa di ferro, così pesante che nemmeno un
terremoto la può distruggere. Ci
sono molti bianchi che ammucchiano il denaro che altri hanno fatto per
loro, lo portano in un luogo ben custodito, ne portano lì sempre di più
fino a che non hanno più neppure bisogno di gente che lavori per loro,
perché a questo punto è il denaro che lavora per loro. Come ciò sia
possibile senza qualche diabolica magia, non sono mai riuscito a saperlo
del tutto: ma è vero che il denaro diventa sempre di più, come le
foglie di un albero, e che in questi casi l'uomo diventa ricco anche
quando dorme. Ora,
quando uno ha molto denaro, molto più della maggior parte degli altri
uomini, così tanto che potrebbe con esso rendere il lavoro più facile
a cento, mille uomini, lui non dà loro nulla; mette le mani sopra il
metallo rotondo e siede sopra la carta pesante e c'è avidità e voluttà
nei suoi occhi. E se gli chiedi: "Che cosa vuoi fare con tutto quel
tuo denaro? Qui sulla terra non puoi fare molto più che rivestirti,
placare la tua fame e la tua sete", allora non sa che cosa
rispondere, oppure dice: "Voglio averne ancora di più. Sempre di
più. E ancora di più". E, così, ben presto ti avvedi che il
denaro lo ha fatto ammalare e che tutti i suoi sensi sono posseduti dal
denaro. E'
malato e invasato perché ha dato la sua anima al metallo rotondo e alla
carta pesante, e non ne ha mai abbastanza e non può smettere di
desiderarne sempre di più. Non è più capace di pensare: "Voglio
andarmene dal mondo senza molestie e senza ingiustizie, così come ci
sono venuto, poiché il Grande Spirito mi ha inviato nel mondo anche
senza metallo rotondo e senza carta pesante". Assai pochi pensano a
questo. Per lo più restano nella loro malattia, non guariscono mai nel
loro cuore e godono del potere che dà il molto denaro. Si gonfiano
d'orgoglio come frutti marci sotto le piogge tropicali. Con voluttà
lasciano che molti dei loro fratelli facciano i lavori più duri, per
poter essi stessi ingrassare nella pigrizia e prosperare. E fanno questo
senza che la loro coscienza si ammali. Si vantano delle loro belle dita
pallide che ora non si sporcano più. Il pensiero di derubare
continuamente gli altri delle loro energie e di usarle per se stessi non
li disturba e non toglie loro il sonno. Non pensano affatto di dare agli
altri una parte del tanto denaro che hanno, per rendere loro più facile
il lavoro e più lieve la fatica. Cosi
in Europa c'è una metà che deve fare molto lavoro sporco, mentre
l'altra metà lavora poco o niente del tutto. La prima metà non ha mai
tempo per starsene al sole, la seconda ne ha molto. Il Papalagi dice:
"Non tutti gli uomini possono avere ugualmente tanto denaro e
mettersi tutti contemporaneamente seduti al sole". Secondo questa
dottrina egli si prende il diritto di essere crudele, per amore del
denaro. Il suo cuore è duro e il suo sangue freddo, sì, egli mente,
inganna, è sempre disonesto e pericoloso quando la sua mano si tende
verso il denaro. Spesso un Papalagi ne uccide un altro per denaro.
Oppure lo uccide con il veleno delle parole, lo stordisce con esse per
rapinarlo. Perciò di rado uno si fida di un altro, perché tutti sono
consapevoli della loro grande debolezza. Per questo tu non sai mai se un
uomo che ha molto denaro è buono nel fondo del suo cuore, perché
potrebbe anche essere molto cattivo Noi non sappiamo mai come e dove ha
preso i suoi tesori. In
compenso però anche l'uomo ricco non sa se l'onore che gli viene fatto
si riferisce alla sua persona o al suo denaro. Il più delle volte è
rivolto al suo denaro. Perciò io non comprendo perché si vergognano
tanto coloro che non hanno molto metallo rotondo e carta pesante e
invidiano il ricco, invece di essere loro a farsi invidiare. Perché
come non è bene cingersi di troppo pesanti collane di conchiglie, così
è per il greve peso del denaro. Esso toglie all'uomo il respiro e alle
membra la giusta libertà. Ma
non un solo Papalagi vuol rinunciare al suo denaro. Non uno. Chi non ama
il denaro viene deriso, è stupido. "La "ricchezza" (cioè
l'avere molto denaro) rende felici", dice il Papalagi. E ancora:
"Il Paese che ha più denaro è il più felice". Noi tutti,
voi, illuminati fratelli, siamo poveri. La nostra terra è la più
povera sotto il sole. Noi non abbiamo tanto metallo rotondo e carta
pesante da riempirne una cassa. Agli occhi del Papalagi siamo poveri
mendicanti. Eppure! Quando vedo i vostri occhi e li confronto con quelli
del ricco signore, trovo che i suoi sono opachi e spenti e stanchi,
mentre i vostri brillano della grande luce, brillano di gioia, forza,
vitalità e salute. I vostri occhi li ho trovati solo nei bambini dei
Papalagi, prima che imparino a parlare, perché fino a quel momento non
sanno ancora nulla del denaro. Quanto siamo stati privilegiati dal
Grande Spirito, che ci ha protetti contro il demonio! Il denaro è un
demonio, perché tutto ciò che fa è male e fa male. Chi soltanto tocca
il denaro, rimane prigioniero del suo incanto, e chi lo ama deve fargli
dono di tutte le sue energie e di tutte le sue gioie, fintanto che vive.
Amiamo dunque i nostri nobili costumi, che dispregiano l'uomo che chiede
una mercede per ogni ospitalità che dà, per ogni frutto che porge.
Amiamo i nostri costumi che non sopportano che uno abbia tanto più di
un altro o che abbia molto e l'altro nulla di nulla. Affinché nel
nostro cuore non diventiamo come il Papalagi, che sa essere lieto e
felice anche se il fratello che gli sta accanto è triste e infelice. Guardiamoci
soprattutto dal denaro. Il Papalagi porge ora anche a noi il suo metallo
rotondo e la sua carta pesante, per renderci avidi di essi. Essi
dovrebbero farci più ricchi e più felici. Già molti di noi ne sono
stati accecati e sono caduti in quella grave malattia. Ma se voi credete
alle parole del vostro umile fratello, se sapete che vi dico la verità
quando affermo che il denaro non rende n‚ più lieti, n‚ più
felici, ma piuttosto mette il cuore e tutto l'uomo in grande confusione,
che con il denaro non si può mai veramente venire in aiuto di una
persona, renderla più lieta o più forte e più felice, allora anche
voi comincerete a odiare il tondo metallo e la carta pesante come i
peggiori dei vostri nemici. 4.
Le molte cose che fanno povero il Papalagi E
anche in questo riconoscerete il Papalagi, perché tenta di convincerci
che noi siamo poveri e miserevoli e abbiamo bisogno di molto aiuto e
compassione perché non possediamo le cose. Lasciate
che vi dica, miei cari fratelli delle molte isole, che cos'è una cosa.
La noce di cocco è una cosa, il panno, la conchiglia, lo scacciamosche,
l'anello che porti al dito, la ciotola in cui mangi, gli ornamenti che
porti in capo. Tutte queste sono cose. Ma ci sono due generi diversi di
cose. Ci sono cose fatte dal Grande Spirito, senza che noi lo vediamo,
che a noi uomini non costano n‚ denaro, n‚ fatica alcuna, come la
noce di cocco, appunto, la conchiglia, la banana; e ci sono cose fatte
dagli uomini, che costano lavoro e fatica, come gli anelli, la ciotola o
lo scacciamosche. Il signore intende quindi le cose che egli può fare
con le sue stesse mani, le cose dell'uomo, e sono queste che ci mancano;
poiché non può certo riferirsi alle cose del Grande Spirito. Gettate
intorno lo sguardo, fino all'orizzonte, dove l'estremità della terra
sostiene l'immensa volta azzurra. Tutto è pieno di grandi cose: la
foresta con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagalli; la
laguna con i suoi frutti le conchiglie, le aragoste e gli altri animali
d'acqua; la spiaggia con il suo volto chiaro e la morbida pelliccia
della sua sabbia; la grande acqua, che può mostrarsi irata come un
guerriero o sorridere dolcemente come una vergine del villaggio; la
grande volta azzurra, che si trasforma a ogni ora del giorno e porta
grandi fiori che ci danno luce d'oro e d'argento. Perché dovremmo
essere tanto stolti da aggiungere a queste altre cose, da mettere cose
dell'uomo accanto a quelle sublimi del Grande Spirito? Non potremmo mai
comunque uguagliarlo, poiché il nostro spirito è troppo piccolo e
debole di fronte alla potenza del Grande Spirito; e anche la nostra mano
è troppo debole in confronto alla sua, grande e possente. Tutto ciò
che possiamo fare è soltanto poca cosa e non vale la pena di parlarne.
Possiamo rendere più lungo il nostro braccio per mezzo di una clava,
possiamo allargare la nostra mano per mezzo di una ciotola di legno, ma
non c'è mai stato un samoano e neppure un Papalagi che abbia fatto una
palma o una radice di kava. Naturalmente
il Papalagi crede di poter fare queste cose, crede di essere forte come
il Grande Spirito. E mille e mille mani non fanno altro che preparare
cose, dal levarsi al cadere del sole. Cose dell'uomo, di cui non
conosciamo lo scopo, di cui non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa
sempre nuove cose, continuamente. Le sue mani tremano di febbre, il suo
volto diventa grigio come la cenere e la schiena gli s'incurva; ma lui
brilla di gioia quando riesce a costruire una cosa nuova. E subito tutti
vogliono avere la cosa nuova, e la ammirano, si mettono davanti a essa e
la cantano nella loro lingua. O
miei fratelli, se voi voleste credermi: io sono riuscito a entrare nel
pensiero del Papalagi e ho visto la sua volontà, come s'egli fosse
illuminato dal sole di mezzogiorno. Poiché là dove egli arriva,
distrugge le cose del Grande Spirito, e vuole poi riportare in vita con
il proprio potere ciò che uccide, e con ciò far credere a se stesso di
essere lui il Grande Spirito perché sa fare tante cose. Fratelli,
pensate se fra un'ora venisse la grande tempesta e sradicasse la foresta
e portasse via le montagne con tutti gli alberi e tutte le foglie e
trascinasse via con s‚ tutte le conchiglie e gli animali della laguna
e non ci fosse più neppure un fiore di ibisco con cui le nostre
fanciulle potessero adornarsi i capelli. Se tutto, tutto ciò che
vediamo scomparisse e non restasse altro che sabbia, e la terra
somigliasse a una nuda mano tesa o a una collina su cui è scivolata la
lava incandescente, come piangeremmo sulle palme, sulle conchiglie,
sulla foresta, su tutto. Là dove si trovano le molte capanne del
Papalagi, nei luoghi ch'egli chiama città, là però la terra è nuda
come una mano tesa, e per questo il Papalagi si smarrisce nella follia e
gioca a fare il Grande Spirito: per dimenticare ciò che non possiede.
Poiché egli ‚ così povero e la sua terra così triste, afferra le
cose, le raccoglie come il pazzo raccoglie le foglie secche e con esse
riempie la sua capanna. Per questo però ci invidia e vorrebbe che noi
diventassimo poveri come lui. Grande
povertà è quando l'uomo ha bisogno di tante cose perché così egli
dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito. Il Papalagi è
povero perché desidera tanto ardentemente le cose. Non può vivere
senza di esse. Quando con il dorso di una tartaruga si costruisce un
arnese per lisciarsi i capelli, quando vi ha messo dell'olio, fa ancora
una pelle per l'utensile, una piccola cassa per la pelle e una cassa più
grande per quella più piccola. Mette tutto in pelli e in casse. Ci sono
casse per panni inferiori e superiori, per panni da lavare, panni da
bocca e altri panni, casse per le pelli da mano e per le pelli da piedi,
per il metallo rotondo e per la carta pesante, per le provviste di cibo
e per il Libro Sacro, per tutto e per ogni cosa. Di tutte le cose ne fa
tante, quando una sola basterebbe. Vai in una cucina europea e vedi
moltissime ciotole per il cibo e altri strumenti per cucinare che non
vengono mai usati. E per ogni cibo c'è una diversa ciotola: una per
l'acqua diversa da quella per la kava europea, una per la noce di cocco
diversa da quella per la colomba. Una
capanna europea ha tante cose, che se anche tutti gli uomini di un
villaggio delle Samoa se ne caricassero completamente le mani e le
braccia non basterebbero a portarle tutte. In una sola capanna ci sono
un tal numero di cose, che tanti capi bianchi hanno bisogno di molti
uomini e donne che non facciano altro che mettere tutte queste cose al
loro posto e ripulirle della sabbia. E persino la più nobile vergine
consuma molto del suo tempo a contare le molte cose, a sistemarle e a
pulirle. Fratelli,
voi sapete che io non mento e vi dico tutto come io in verità ho
veduto, senza nulla togliere o aggiungere. Così, credetemi, in Europa
ci sono persone che si puntano la canna da fuoco alla fronte e si
uccidono perché preferiscono morire piuttosto che vivere senza cose.
Poiché il Papalagi inebria in mille maniere il suo spirito e così si
convince di non poter vivere senza le cose, come nessun uomo può vivere
senza cibo. Per
questo non ho mai trovato in Europa una capanna dove potessi stendermi
bene sulla mia stuoia senza che qualcosa urtasse le mie membra quando mi
allungavo. Tutte le cose mandavano lampi o gridavano forte con la bocca
del loro colore, così che non potevo chiudere gli occhi. Mai riuscii a
trovare un giusto riposo e mai provai maggior nostalgia per la mia
capanna delle Samoa, nella quale non ci sono cose, se non la mia stuoia
e il rotolo per poggiare la testa, e dove nulla arriva all'infuori del
dolce aliseo che viene dal mare. Chi
possiede poche cose si considera povero e ne soffre. Non c'è Papalagi
che canti e abbia uno sguardo lieto quando non ha nulla all'infuori
della sua stuoia e della sua ciotola, come accade a ciascuno di noi. Gli
uomini e le donne del mondo bianco piangerebbero di malinconia nelle
nostre capanne, si affretterebbero a correre nella foresta per prendere
legno e cercare il guscio della tartaruga, vetro, filo di ferro o pietre
colorate o molte altre cose ancora, e continuerebbero da mattina a sera
a tenere in moto le loro mani, fino a quando la loro casa delle Samoa si
fosse riempita di cose grandi e piccole. Tutte cose che facilmente si
rompono, che ogni piccolo fuoco e ogni pioggia tropicale possono
distruggere e spazzar via, e che devono perciò essere continuamente
rifatte. Quanto
più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose
di cui ha bisogno. Per questo le mani del Papalagi non stanno mai ferme,
non riposano mai: per il gran fare le cose. Per questo i volti dei
bianchi sono spesso cosi stanchi e tristi, e per questo pochissimi fra
di loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla
piazza del villaggio, a dire e cantare liete canzoni o, nei giorni di
sole, a danzare nella luce e a rallegrarsi come a noi tutti è dato di
fare. Loro devono fare cose. Devono custodire le loro cose. Le cose
stanno loro addosso e strisciano loro intorno come le formichine della
sabbia. Compiono con gelido cuore qualsiasi delitto, per ottenere le
cose. Si fanno la guerra fra di loro, non per l'onore dell'individuo, o
per misurare le loro vere forze, ma solo per amore delle cose. Tuttavia
tutti loro sanno la grande povertà della loro vita, altrimenti non ci
sarebbero tanti Papalagi che godono di grande onore perché passano
tutta la loro vita a intingere ciuffi di peli in succhi di ogni colore,
e con essi gettano belle immagini su bianche stuoie. Scrivono così
tutte le belle cose di Dio, tanto variopinte e liete quanto loro riesce
di fare. Con la terra molle danno forma a creature senza panni,
fanciulle con i bei movimenti liberi di una vergine del villaggio
Matautu, oppure a figure maschili che levano la clava, che tendono
l'arco e spiano nella foresta la colomba selvatica. Creature di argilla
alle quali il Papalagi costruisce intorno capanne a festa, dove la gente
arriva da lontano per contemplarle e godere della loro bellezza e santità.
Stanno davanti a esse avvolti fittamente nei loro molti panni e
rabbrividiscono. Io ho visto il Papalagi piangere di gioia davanti a
tanta bellezza, che lui stesso ha perduto. Ora
gli uomini bianchi vorrebbero portare a noi i loro tesori, perché anche
noi diventiamo ricchi delle loro cose. Ma queste cose non sono che
frecce avvelenate, di cui si muore quando colpiscono il petto.
"Dobbiamo creare loro dei bisogni", ho udito dire da un uomo
bianco che conosce bene la nostra terra; e bisogni vuol dire cose.
"Allora diventeranno desiderosi di lavorare", diceva ancora
quell'uomo sapiente. E intendeva dire che dovremmo impiegare anche noi
la forza delle nostre mani per fare le cose. Cose per noi, ma in primo
luogo per il Papalagi. Anche noi dobbiamo essere stanchi e grigi e
curvi. Fratelli
delle molte isole, dobbiamo vegliare e stare all'erta, perché le parole
del Papalagi sembrano dolci banane, ma sono piene di lance segrete che
vogliono uccidere in noi la luce e la gioia. Non dimentichiamo mai che a
noi occorre ben poco, all'infuori delle cose del Grande Spirito. Egli ci
ha dato gli occhi per vedere le sue cose. E ci vuole più di una vita
per vederle tutte. E non c'è mai stata menzogna più grande sulle
labbra dell'uomo bianco di questa: che le cose del Grande Spirito non
sono di utilità mentre le sue sarebbero molto più utili. Le sue cose
sono così grandi in numero, che brillano e scintillano, e cercano in
mille modi di conquistarci; non hanno però mai fatto un Papalagi più
bello nel corpo, n‚ i suoi occhi più brillanti o i suoi sensi più
forti. Quindi anche le sue cose non servono a nulla, e dunque ciò che
egli dice e vuol spingerci a fare appartiene al cattivo spirito e il suo
pensiero è imbevuto di veleno. IL
PAPALAGI ama il metallo rotondo e la carta pesante, ama mettersi nella
pancia molto liquido tratto da frutti uccisi e molta carne di maiale e
bue e di altri terribili animali, ma sopra ogni cosa ama ciò che non si
può afferrare e che pure è sempre presente: il tempo. E di questo fa
grande scalpore e sciocche chiacchiere. Sebbene non ce ne sia mai più
di quanto ne può stare fra il levarsi e il cadere del sole, lui non ne
ha mai abbastanza. Il
Papalagi è sempre scontento del suo tempo e si lamenta con il Grande
Spirito perché non gliene ha dato abbastanza. Sì, arriva a bestemmiare
Dio e la sua grande saggezza, dal momento che taglia e ritaglia e divide
e suddivide ogni nuovo giorno secondo un preciso sistema. Lo taglia
proprio come si squarcia con il coltello una molle noce di cocco. E
tutte le parti che taglia hanno un nome: secondi, minuti, ore. Il
secondo è più piccolo del minuto, questo è più piccolo dell'ora;
tutti insieme fanno le ore e bisogna avere sessanta minuti e molti più
secondi prima di avere un'ora. Questa
è una faccenda molto complicata, che non sono mai riuscito a
comprendere bene, perché mi fa star male rimanere più a lungo del
necessario a riflettere su cose così infantili. Ma il Papalagi fa di
questo un grande sapere. Gli uomini, le donne e persino i bambini
piccoli, che appena si reggono sulle gambe, portano nei loro panni una
piccola macchina rotonda appesa a una grossa catena che pende dal collo
o è legata a un polso con una striscia di pelle, e in essa sanno
leggere il tempo. Questa lettura non è affatto facile. La si insegna ai
bambini, tenendo loro la macchina vicino all'orecchio perché si
divertano. Questa
macchina, che si può facilmente portare su due dita tese, ha
all'interno l'aspetto di una di quelle macchine che stanno nella pancia
delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però anche macchine
del tempo grandi e pesanti, che stanno ritte in piedi all'interno di una
capanna o sono appese sulla punta più alta della casa e si possono
vedere da lontano. Quando è trascorsa una parte del tempo, piccole dita
poste sulla parte esterna della macchina lo mostrano, e nello stesso
momento la macchina si mette a gridare, come se uno spirito battesse con
forza contro il ferro del suo cuore. Sicuro, in una città europea c'è
sempre un gran fragore quando è passata una certa parte del tempo. Quando
risuona questo baccano, il Papalagi si lamenta: "E' un gran guaio
che sia già passata un'ora". Di solito, dicendolo fa una faccia
triste, come qualcuno che prova un gran dolore, sebbene dopo quella
passata subito arrivi fresca fresca un'altra ora. Non
ho mai capito bene questa cosa e penso appunto che si tratti di una
grave malattia. "Il tempo mi sfugge!" "Il tempo corre
come un puledro impazzito!". "Dammi un po' di tempo!".
Questi sono i lamenti più abituali che si sentono dall'uomo bianco. lo
dico che deve essere una strana sorta di malattia; perché anche
supponendo che l'uomo bianco abbia voglia di fare una cosa, che il suo
cuore lo desideri veramente, per esempio che voglia andare al sole o sul
fiume con una canoa o voglia amare la sua fanciulla, cosi si rovina ogni
gioia, tormentandosi con il pensiero: "Non ho tempo di essere
contento". Il tempo è lì ma, con tutta la buona volontà, lui non
lo vede. Nomina mille cose che gli portano via il tempo, se ne sta
immusonito e lamentoso al suo lavoro che non ha alcuna voglia di fare,
che non gli dà gioia e al quale nessuno lo costringe se non se stesso.
Ma se poi all'improvviso si avvede di avere tempo, che il tempo è li,
oppure qualcuno gli dà dell'altro tempo (i Papalagi si danno sempre il
tempo a vicenda, sicuro, niente è più altamente considerato di
questo), allora gli manca di nuovo la voglia oppure è stanco del suo
lavoro e senza gioia. E regolarmente vuole fare l'indomani ciò per cui
oggi non ha più tempo. Ci
sono Papalagi che affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come
dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno
del male e combinano guai e creano spavento perché hanno perduto il
loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che
nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta
alla rovina. Poiché
ogni Papalagi è ossessionato dalla paura di perdere il suo tempo, sa
anche molto bene (e non solo lo sa ogni uomo, ma anche ogni donna e ogni
bambino piccolo) quanti soli e quante lune si sono levate e sono
tramontate dal momento in cui egli ha visto la grande luce per la prima
volta. Sicuro, questa è una cosa importante e quindi allo scadere di
determinati periodi di tempo, si fanno grandi sacrifici con fiori e
grandi banchetti. Quanto spesso mi sono accorto che molti credevano di
doversi vergognare per me quando mi domandavano quanti anni avevo e io
ridevo e non sapevo rispondere. "Ma devi pur sapere quanti anni
hai." lo tacevo e pensavo: "E' molto meglio che io non lo
sappia". Che
età si ha, quante lune si sono viste. Questi calcoli e queste ricerche
sono colme di pericolo, perché con ciò si capisce quante lune dura la
vita della maggior parte degli uomini. E così ciascuno di loro sta
attentissimo, e quando molte e molte lune sono trascorse, dice:
"Dovrò presto morire". Cosi non ha più gioia e finisce che
muore davvero. Ci
sono in Europa soltanto poche persone che hanno veramente tempo. Forse
nessuna. Per questo, quindi, la maggior parte di esse corrono per la
vita come una pietra che rotola. Tutti o quasi camminano tenendo gli
occhi abbassati e dondolando le braccia avanti e indietro per andare più
in fretta. Quando si vuole fermarli, gridano arrabbiati: "Perché
mi disturbi? Non ho tempo, vedi piuttosto di usare bene il tuo".
Fanno proprio come se un uomo che cammina in fretta avesse più valore e
fosse più coraggioso di quello che cammina lentamente. Ho
visto un uomo farsi scoppiare la testa, roteare gli occhi e spalancare
la bocca come un pesce che sta per morire, diventare rosso e verde e
battere le mani e i piedi perché il suo servo era arrivato un momento
più tardi di quanto aveva promesso. Quel minuto, lo spazio di un
respiro, era per lui una perdita tanto grave che non si sarebbe mai
potuta compensare. Il servo dovette abbandonare la sua capanna, il
Papalagi lo scacciò e gli gridò: "Mi hai rubato abbastanza tempo.
Un uomo che non bada al tempo, non è degno di averne". Una
sola e unica volta incontrai un uomo che aveva molto tempo, che non si
lagnava mai di averne perduto; ma era povero e sudicio e abbandonato. La
gente gli girava al largo e nessuno aveva rispetto di lui. Io non
compresi questo modo di fare, perché il suo passo era tranquillo e
senza ansia e i suoi occhi avevano un quieto sorriso, silenzioso e
gentile. Quando glielo domandai, il suo volto si piegò in una smorfia e
disse con tristezza: "lo non ho mai saputo far uso del mio tempo,
perciò sono un povero diavolo disprezzato da tutti". Quest'uomo
aveva tempo, ma neppure lui era felice. Il
Papalagi impiega tutte le sue energie e consuma tutti i suoi pensieri
per rendere sempre più pieno il suo tempo. Utilizza l'acqua e il fuoco,
la tempesta, i lampi del cielo, tutto per trattenere il tempo. Si mette
delle ruote di ferro sotto i piedi e dà ali alle sue parole, sempre per
avere più tempo. E perché tutta questa gran fatica? Che cosa ne fa
alla fine il Papalagi del suo tempo? Non sono mai riuscito a capirlo del
tutto, sebbene lui faccia sempre tante parole e tanti gesti come se il
Grande Spirito lo avesse invitato a un ricevimento. Io
credo che il tempo gli sfugga come una serpe sfugge da una mano bagnata,
proprio perché lui cerca di tenerlo cosi stretto. Non gli lascia modo
di riprendersi. Gli sta appresso e gli dà letteralmente la caccia con
le mani tese, non gli consente alcuna sosta perché possa stendersi al
sole. Il tempo deve essergli sempre accanto, deve dirgli e cantargli
qualcosa. Ma il tempo è silenzioso e ama la pace e la calma e lo stare
distesi su una stuoia. Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo
riconosce per quello che è e perciò lo maltratta in quel modo con i
suoi rozzi costumi. O
miei cari fratelli! Noi non ci siamo mai lamentati del tempo, lo abbiamo
sempre amato; quando veniva non gli siamo mai corsi appresso, non
abbiamo mai voluto n‚ costringerlo n‚ disfarlo. Per noi non è mai
stato fonte di pena o di fastidio. Si faccia avanti quello fra noi che
non ha tempo! Ciascuno di noi ha tempo in quantità; ma noi però siamo
anche contenti e soddisfatti di lui, non ce ne occorre più di quanto ce
ne è dato e ne abbiamo sempre quanto basta. Sappiamo di arrivare sempre
abbastanza in tempo alle nostre mete e sappiamo anche che il Grande
Spirito ci chiama secondo la sua volontà, anche se non abbiamo contato
il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il povero, smarrito
Papalagi dalla sua follia, dobbiamo ridargli il suo tempo. Dobbiamo
distruggere la sua piccola macchina del tempo e annunciargli che dal
levarsi al calare del sole c'è molto più tempo di quanto un uomo può
aver bisogno. 6.
Il Papalagi ha impoverito Dio IL
PAPALAGI ha una maniera di pensare curiosa e stranamente contorta. Pensa
sempre come meglio trarre profitto da qualcosa e averne ragione.
Sopratutto pensa solo per uno e non per tutti gli uomini. E questo uno
è egli stesso. Quando
un uomo dice: "La mia testa è mia e non appartiene ad altri che a
me", allora per lui è veramente cosi e nessuno può avere qualcosa
da ridire. Nessuno ha maggior diritto alla propria mano destra che il
possessore di quella mano. Fin
qui do al Papalagi tutte le ragioni. Ma lui dice anche: "La palma
è mia". Solo perché cresce proprio davanti alla sua capanna. Come
se l'avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto
sua. Mai è la mano di Dio che l'ha fatta uscire dalla terra. Dio ha
molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d'erba, il mare, il
cielo, le nuvole che in cielo camminano, tutto questo sono le mani di
Dio. Noi possiamo afferrare queste cose e goderne, ma non possiamo dire:
"La mano di Dio è la mia mano". Il Papalagi però lo fa. "Lau"
si chiama nella nostra lingua il mio e il tuo, ed è quasi una sola e
unica cosa. Nella lingua del Papalagi non ci sono parole che
significhino due cose ben diverse meglio de "il mio" e
"il tuo". Mio è tutto ciò che appartiene solo e unicamente a
me. Tuo è ciò che appartiene solo e unicamente a te. Per tale ragione,
di tutto ciò che sta nella cerchia della sua capanna il Papalagi dice:
"E mio". E nessuno ha diritto su queste cose all'infuori di
lui. Quando vai da un Papalagi e presso di lui vedi qualcosa, un frutto,
un albero, un'acqua, un bosco, un mucchio di terra, subito egli dice:
"Questo è mio. Guardati dal toccare ciò che è mio!" Ma se
tu lo fai ugualmente, allora si mette a gridare, ti chiama ladro, una
parola che rappresenta una grande vergogna, e questo soltanto perché
hai osato toccare un "mio" del tuo prossimo. Accorrono i suoi
amici e i servi del grande capo, ti mettono in catene e ti conducono
nella "fale pui pui" e tu sei messo al bando per tutta la
vita. Perché
uno non abbia a prendere le cose che sono dell'altro, questo, e cioè il
ciò che è mio e il ciò che è tuo, è accuratamente regolato da leggi
speciali. E in Europa ci sono persone che non fanno altro che badare a
che nessuno trasgredisca queste leggi, che al Papalagi nulla venga
portato via di ciò ch'egli ha fatto suo. Con questo il Papalagi vuol
dare a vedere di avere un reale diritto su queste cose, come se Dio
stesso gli avesse concesso ciò che possiede per tutti i tempi. Come se
davvero la palma, l'albero, il fiore, il mare, il cielo con le sue
nuvole gli appartenessero. Il
Papalagi deve fare queste leggi e deve avere tutti questi difensori per
il suo molto "mio", affinché coloro che hanno poco o nessun
"mio" non prendano dal suo "mio". Poiché la dove
molti prendono molto per s‚, ci sono anche molti che hanno le mani
vuote. Non tutti conoscono le astuzie e i modi segreti per giungere a
molto "mio" e occorre uno speciale coraggio per questo, che
non sempre si concilia con ciò che noi chiamiamo onore. E può anche
ben darsi che coloro che hanno le mani vuote, perché non vogliono
offendere Dio e non vogliono portargli via nulla, siano i migliori fra i
Papalagi. Ma di questi sicuramente ce ne sono pochissimi. La
maggior parte deruba Dio senza vergogna. Non conoscono altro modo di
vivere. Spesso non sanno neppure di fare qualcosa di male; appunto perché
tutti fanno cosi, non ci fanno più caso e non provano alcuna vergogna.
Molti ricevono anche molto "mio" dalle mani del padre, al
momento in cui vengono al mondo. In ogni modo Dio non ha quasi più
nulla, gli uomini gli hanno portato via quasi tutto per farne il mio e
il tuo. Egli non può più dare il suo sole che è destinato a tutti non
può più darlo a tutti in parti uguali, perché alcuni ne vogliono più
di altri. Sulle belle piazze assolate spesso siedono soltanto pochi,
mentre gli altri molti nell'ombra carpiscono solo qualche raggio
stentato. Dio non può più provare una vera gioia perché non è più
il grandissimo signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega in
quanto dice: "Tutto è mio". Ma a tanto non arriva il suo
ragionamento, sebbene passi molto tempo a pensare. Al contrario, egli
dichiara il suo fare equo e giusto. Invece è iniquo e ingiusto davanti
a Dio. Se
il Papalagi pensasse in modo giusto, dovrebbe anche sapere che nulla ci
appartiene di ciò che non possiamo tenere stretto. E che in effetti noi
non possiamo tenere stretto nulla. In tal caso comprenderebbe anche che
Dio ha dato la sua grande casa perché tutti in essa trovino posto e
gioia. E questo posto sarebbe anche abbastanza grande perché ciascuno
trovi un angolino di sole e una piccola gioia, e perché ciascuno abbia
una piccola ombra di palma e un posticino su cui posare i piedi. Come
Dio vuole e ha stabilito. Come potrebbe del resto Dio aver dimenticato
anche uno solo dei suoi figli! Eppure quanti sono coloro che ancora
cercano l'angolino a loro destinato. Poiché
il Papalagi non ascolta il comandamento di Dio e vuol farsi da s‚ le
proprie leggi, Dio gli manda molti nemici della sua proprietà. Manda
l'umidità e la calura a distruggere il suo "mio", gli manda
la vecchiaia, la dissoluzione. Dà potere sopra i suoi beni anche al
fuoco e alla tempesta. Ma soprattutto Egli depone nell'animo del
Papalagi la paura. L'aver paura per ciò che ha preso per s‚. Il sonno
del Papalagi non è mai del tutto profondo perché deve star sveglio
affinché di notte nulla gli venga portato via di ciò che egli stesso
ha messo insieme durante la giornata. Deve sempre avere le mani e i
sensi tesi a controllare il suo "mio". E come tutto quel
"mio" lo tormenta continuamente e si prende gioco di lui e gli
dice: "Poiché tu mi hai portato via a Dio, per questo io ti
tormento e ti procuro molte sofferenze"! Ma
Dio ha dato al Papalagi ben più gravi castighi che la sua paura. Gli ha
dato la lotta fra coloro che hanno soltanto un piccolo o addirittura
nessun "mio" e coloro che si sono presi un grande
"mio". Questa lotta è dura e spietata e continua sempre,
giorno e notte, la lotta di cui tutti soffrono, che a tutti toglie la
gioia della vita. Coloro che hanno devono dare, ma non vogliono dare.
Coloro che non hanno nulla vogliono anche loro avere, ma non ricevono
nulla. Questi però sono raramente in disaccordo con Dio. In primo luogo
sono arrivati troppo tardi per rubare o sono stati troppo maldestri o è
mancata loro l'occasione. Che Dio sia il derubato, questo sono solo in
pochissimi a pensarlo. E solo ben di rado si ode il richiamo di un uomo
giusto, che invita a rimettere tutto nelle mani di Dio. O
fratelli, che cosa ne pensate di un uomo che ha una capanna, grande
abbastanza da contenere un intero villaggio delle Samoa, e non dà al
viandante un tetto per la notte? Che cosa pensate di un uomo che tiene
in mano un grappolo di banane e non dà un solo frutto a colui che è
affamato e lo prega? Io vedo l'ira nei vostri occhi e il grande
disprezzo sulle vostra labbra. Cosi pensate: "Questo è il fare del
Papalagi a ogni ora. E anche se ha cento stuoie, non ne dà una a chi
non ne ha. Al contrario, fa piuttosto all'altro una colpa di non averla.
Può avere la sua capanna colma di provviste di cibo fin sotto la punta
più alta del tetto, molte, molte di più di quelle che la sua famiglia
può consumare in un anno, ma non andrà a cercare coloro che non hanno
da mangiare, che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi
pallidi e affamati. "La
palma dà le sue foglie e i suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi
vive come se la palma volesse tenersi stretti i suoi frutti e le sue
foglie. "Sono mie! Non dovete averne e non dovete mangiarne. Come
potrebbe la palma portare nuovi frutti!'". La palma possiede assai
maggior saggezza di un Papalagi. Anche
fra di noi ci sono molti che hanno più degli altri e noi rendiamo onore
al capo che ha molte stuoie e molti maiali. Questo onore però è
riservato a lui e non alle stuoie e ai maiali. Perché questi li abbiamo
dati noi a lui come dono, per mostrargli la nostra gioia e per rendere
omaggio al suo grande valore e alla sua saggezza. Il Papalagi invece
onora nel proprio fratello le molte stuoie e i molti maiali, non gli
importa nulla del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza
stuoie o senza maiali ha per lui ben poco onore o addirittura nessuno. Ma
poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli verso i poveri e
gli affamati, il Papalagi non vede neppure una buona ragione per
portarli lui stesso ai suoi fratelli. Perché egli non onora il
fratello, ma le stuoie e i suoi maiali. Se
amasse il fratello e lo onorasse e non fosse sempre in lotta con lui per
il "mio" e il "tuo", allora gli porterebbe le
stuoie, perché anche lui possa aver parte del suo grande
"mio". Dividerebbe con lui la sua stessa stuoia, invece di
gettarlo fuori nella notte buia. Ma
il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, le banane, il delizioso
taro, tutti gli uccelli della foresta e tutti i pesci del mare affinché
tutti ne possiamo godere ed essere felici. Ma questo non è solo per
pochi, mentre altri soffrono nella fame e nella miseria. Colui al quale
Dio mette molto nella mano, deve darne al fratello, affinché il frutto
non gli marcisca nella mano. Poiché Dio porge a tutti gli uomini le sue
molte mani; non vuole che uno abbia più degli altri in maniera
disuguale o che uno dica: "lo sto al sole, tu devi restare
all'ombra". Noi tutti abbiamo lo stesso diritto al sole. Là
dove Dio tiene tutto nella sua giusta mano, non c'è lotta n‚ miseria.
L'astuto Papalagi può raccontarci: "Nulla appartiene a Dio! Tutto
ciò che puoi tenere nelle mani appartiene a te solo!" 7.
Il Grande Spirito è più forte della macchina IL
PAPALAGI fa molte cose che noi non sappiamo fare, che non comprenderemo
mai, che per la nostra mente non sono che pietre pesanti. Cose per le
quali non proviamo grande desiderio, ma che possono mettere in grande
stupore i più deboli fra noi e porli in falsa umiltà. Perciò
osserviamo senza vergogna o timore le meravigliose arti del Papalagi. Il
Papalagi ha il potere di tramutare ogni cosa in sue lance e in sue
clave. Si prende il lampo, il fuoco e l'acqua e li sottomette alla sua
volontà. Li rinchiude e dà loro ordini. E loro ubbidiscono. Queste
forze sono i suoi più forti guerrieri. Egli conosce il grande segreto
di rendere il lampo accecante ancor più rapido e luminoso, il caldo
fuoco ancor più caldo, l'acqua veloce ancor più veloce. Il
Papalagi pare davvero essere colui che ha bucato il cielo, il messaggero
di Dio, poiché domina il cielo e la terra a suo piacimento. E pesce e
uccello e verme e cavallo nello stesso tempo. Passa sotto i più grandi
fiumi d'acqua dolce. Scivola fra rocce e montagne. Si lega ruote di
ferro sotto i piedi e corre più veloce del più veloce destriero. Si
solleva nel cielo. Sa volare. L'ho visto muoversi sull'acqua come un
gabbiano. Possiede una grande canoa con la quale può viaggiare
sull'acqua e ha anche una canoa per viaggiare sotto il mare. E con
un'altra canoa viaggia da nuvola a nuvola. Cari
fratelli, io rendo testimonianza della verità con le mie parole e voi
dovete credere al vostro servo, anche se le vostre menti conoscono dubbi
su ciò che io vi annuncio. Poiché grandi e ammirevoli sono le cose del
Papalagi e io temo che ci siano molti fra di noi che potrebbero sentirsi
deboli davanti a tanto potere. E da dove potrei cominciare se volessi
raccontarvi tutto ciò che i miei occhi hanno visto con grande stupore? Voi
tutti conoscete la grande canoa che il bianco chiama piroscafo. Non è
forse come un grandissimo, possente pesce? Come è possibile ch'esso
navighi da isola a isola più velocemente di quanto il più forte dei
nostri giovani rematori sa fare con una canoa? Avete visto alla sua
estremità la grande pinna, della coda quando è in movimento? Essa si
muove e si piega esattamente come quella dei nostri pesci nella laguna
Questa grande pinna spinge avanti la grande canoa. E come questo sia
possibile, è il grande segreto del Papalagi. Il segreto è nella pancia
del grande pesce. Là sta la macchina che dà alla grande pinna la
grande forza. La macchina, è questa che racchiude in s‚ la grande
forza. Una forza che un uomo non potrebbe mai avere. La
macchina è l'arma più potente del Papalagi. Dategli il più robusto
albero di ifi della giungla: la mano della macchina abbatte il tronco,
come una madre spezza il frutto di taro per darlo ai suoi bambini. La
macchina è la più grande meraviglia d'Europa. La sua mano è forte e
non si stanca mai. Se vuole taglia cento, mille canoe in un giorno. L'ho
vista tessere panni, cosi fini e delicati come quelli usciti dalle mani
più delicate di una giovane vergine. Lavorava dalla mattina a notte
fonda. Sputava panno, fino a che ne aveva fatto un mucchio alto quanto
una collina. Miserevole e pietosa è la nostra forza in confronto alla
forza possente della macchina. Il
Papalagi è un mago. Canti una canzone, e lui raccoglie il tuo canto e
te lo ridà in qualunque momento lo vuoi sentire. Ti mette davanti una
lastra di vetro e ci imprigiona la tua immagine. E te la rifà mille
volte, tutte le volte che vuoi. Ma
ho visto magie ben più grandi di questa. Vi ho detto che il Papalagi
afferra i lampi del cielo. Lui li afferra e la macchina li deve divorare
e distruggere, e di notte li sputa di nuovo in mille stelle, stelline,
lucciole e minuscole lune. Per lui sarebbe cosa da nulla cospargere
durante la notte le nostre isole di luce, cosi che possano essere chiare
e luminose come di giorno. Spesso manda fuori di nuovo i lampi per suo
uso e ordina loro la strada e dà loro notizie da portare a fratelli
lontani. E i lampi gli ubbidiscono e portano con s‚ le notizie. Il
Papalagi ha rafforzato tutte le sue membra. Le sue mani arrivano oltre i
mari e fino alle stelle e i suoi piedi superano il vento e le onde. Il
suo orecchio ode ogni sussurro a Savaii e la sua voce ha ali come un
uccello. Il suo occhio vede nella notte. Vede anche dentro il suo corpo,
come se la sua carne fosse trasparente come l'acqua, e vede ogni
sporcizia sul fondo di questa acqua. Tutto
ciò di cui sono stato testimone e che vi racconto è soltanto una
piccola parte di quello che i miei occhi hanno potuto vedere con grande
ammirazione. E, credetemi, l'ambizione del bianco di compiere sempre
nuovi miracoli è grande, e a migliaia essi stanno alzati a pensare
nella notte e studiano come possono riportare una nuova vittoria su Dio.
Perché questa è la verità: il Papalagi vorrebbe vincere Dio. Vorrebbe
abbattere il Grande Spirito e prendere egli stesso le sue forze e i suoi
poteri. Ma ancora Dio è più forte e più potente del più grande dei
Papalagi e delle sue macchine e ancora è Lui che decide chi di noi e
quando deve morire. Ancora
il sole, l'acqua e il fuoco servono in primo luogo Lui, Dio. E ancora
nessun bianco ha potuto decidere quando deve salire la luna o ha saputo
dirigere i venti a sua volontà. Fintanto
che ciò rimane così, quei miracoli sono poca cosa. E debole è colui
fra di noi, o fratelli, che si sottomette a questi miracoli dei
Papalagi; che adora il bianco per i suoi miracoli e per le sue opere e
si dichiara per questo povero e indegno, perché le sue mani e il suo
spirito non sanno fare le stesse cose. Poiché per quanto tutte le
meraviglie dei Papalagi possano colmarci di stupore, osservate alla
limpida luce del sole, esse significano poco più che l'intaglio di una
clava e l'intreccio di una stuoia, e ogni suo fare assomiglia solo al
gioco di un bambino nella sabbia. Poiché non c'‚ nulla, che il bianco
ha fatto, che possa anche solo lontanamente uguagliare i miracoli del
Grande Spirito. Splendide
e possenti e ben decorate sono le capanne dei grandi signori, che essi
chiamano palazzi; e ancor più belle le alte capanne che essi hanno
eretto in onore di Dio, che spesso si levano più alte delle cime del
monte Tofua. Tuttavia ciò è rozzo e grossolano e senza il caldo sangue
della vita in confronto a un semplice arbusto di ibisco con la sua
fioritura color del fuoco; in confronto alla cima svettante di ogni
palma o a una foresta dei nostri coralli, ebbra di forme e di colori.
Mai finora il Papalagi ha intessuto un panno cosi fine come Dio tesse in
ogni ragnatela, e mai una macchina ha lavorato in modo cosi sottile e
abile come la più piccola formichina della sabbia che vive nelle nostre
capanne. Il
bianco vola sulle nuvole come un uccello, ve l'ho detto. Ma i grandi
gabbiani volano ancora più alti e più veloci dell'uomo e in tutte le
tempeste, e le ali nascono dal loro corpo, mentre le ali del Papalagi
sono soltanto un inganno e si possono spezzare facilmente e farlo
cadere. Così
tutti i suoi miracoli hanno dunque una piccola, nascosta imperfezione; e
non c'è macchina che non abbia bisogno di un custode e di qualcuno che
l'aiuti a muoversi. E ciascuna porta dentro di s‚ la sua segreta
maledizione. Poiché anche se la forte mano della macchina fa tutto,
essa consuma con il suo lavoro anche l'amore che si nasconde in ogni
cosa che esce dalle nostre mani. Che
cosa varrebbe per me una canoa o una clava tagliata dalla macchina, un
oggetto freddo e senza sangue che non sa parlare del suo lavoro, che non
sa sorridere quando è finito e che non posso portare alla madre o al
padre perché se ne rallegrino? Come posso amare la mia canoa come
l'amo, se una macchina me la potesse rifare in ogni momento senza che io
vi metta mano? Questa è la grande maledizione della macchina: che il
Papalagi non ama più nulla, perché può sempre rifare subito ogni
cosa. Per accogliere i suoi miracoli privi di amore, egli deve nutrirli
del proprio cuore. Il
Grande Spirito vuole decidere esso stesso le forze del cielo e della
terra e distribuirle secondo il suo giudizio. Questo non è mai concesso
all'uomo. Non
impunemente il bianco tenta di fare di se stesso pesce e uccello,
cavallo e verme. E il guadagno è molto più piccolo di quanto egli
stesso osi confessarsi. Quando
io cavalco attraverso un villaggio, arrivo certo più in fretta; ma
quando vado a piedi, vedo di più, e gli amici mi chiamano nelle loro
capanne. Arrivare veloci a una meta è di rado un vero vantaggio. Il
Papalagi vuole sempre arrivare in fretta alla meta La maggior parte
delle sue macchine servono solo allo scopo di arrivare più in fretta E'
giunto alla meta e già un'altra lo chiama. E così il Papalagi passa
nella vita senza un momento di riposo, dimentica sempre più la gioia di
camminare e di vagabondare e la letizia del muoversi verso la meta che
ci viene incontro, che non andiamo a cercare. Perciò
io vi dico: la macchina è un bel giocattolo dei grandi bambini bianchi
e tutte le sue arti non ci devono spaventare. Il Papalagi non ha ancora
costruito una macchina che lo preservi dalla morte. Non ha ancora fatto
niente che sia più grande di ciò che Dio fa in ogni ora. Tutte le
macchine e le altre sue arti e magie non hanno ancora prolungato la vita
di un uomo, non lo hanno neppure reso più lieto e felice. Teniamoci
perciò alle meravigliose macchine e alle grandi arti di Dio e
disprezziamo il bianco quando gioca a fare Dio. 8.
Del mestiere del Papalagi e di come egli in esso si smarrisce OGNI
PAPALAGI ha un mestiere. E molto difficile spiegare che cosa sia un
mestiere. E qualcosa che si dovrebbe aver voglia di fare, ma il più
delle volte non se ne ha. Avere un mestiere vuol dire fare sempre, ogni
giorno, la stessa cosa. Farla così spesso da poterla fare a occhi
chiusi e senza alcuno sforzo. Se io con le mie mani non faccio altro che
costruire capanne o intrecciare stuoie, costruire capanne o intrecciare
stuoie diventa il mio mestiere. Ci
sono mestieri maschili e mestieri femminili. Lavare biancheria nella
laguna o tirare a lucido le pelli da piedi sono mestieri femminili,
guidare una imbarcazione in mare e sparare agli uccelli nella foresta
sono mestieri maschili. Nella maggior parte dei casi la donna rinuncia
al suo mestiere quando si sposa. L'uomo, al contrario, comincia proprio
allora a farlo con maggior lena. Ogni
signore dà sua figlia solo a un pretendente che abbia un buon mestiere.
Un Papalagi senza mestiere non si può sposare. Ogni uomo bianco quindi
può e deve avere un mestiere. Per questa ragione ogni Papalagi, molto
prima che venga il momento di farsi tatuare, deve decidere quale lavoro
vuol fare per tutta la vita. Questo lo chiamano: scegliere una
professione. Si tratta di una cosa molto importante e la famiglia ne
parla tanto come di ciò che vuol mangiare il giorno seguente. Se vuole
iniziare il mestiere di intrecciatore di stuoie, allora il signore
anziano porta il giovane signore da un uomo che non fa altro che
intrecciare stuoie. Quest'uomo deve spiegare al giovane come si
intreccia una stuoia. Deve insegnargli a farlo così bene da poterlo
fare a occhi chiusi. Spesso per questo ci vuole molto tempo, ma non
appena ha imparato il giovane lascia l'uomo, e allora si dice che ha
imparato il mestiere. Quando
il Papalagi, più avanti nella vita, si avvede che preferirebbe
costruire capanne invece che intrecciare stuoie, allora si dice che ha
sbagliato mestiere, che in altre parole vuol dire: ha mancato il
bersaglio. Questo è un grande dolore, perché è contro i buoni costumi
mettersi a fare un altro mestiere; è contro l'onore del buon Papalagi
dire: "Questo non lo so fare, non ne ho voglia", oppure:
"Le mie mani non mi vogliono ubbidire". Il
Papalagi ha tanti mestieri quante sono le pietre della laguna. Di ogni
cosa che si può fare, lui fa un mestiere. Se uno raccoglie le foglie
avvizzite dell'albero del pane, questo è il suo mestiere. Se pulisce le
stoviglie, anche questo è un mestiere. Mestiere è tutto ciò che deve
essere fatto con le mani o con la testa. Mestieri sono anche avere dei
pensieri nella testa o osservare le stelle. Non c'è nulla in effetti
che un uomo possa fare, di cui il Papalagi non faccia un mestiere. Quindi
quando il bianco dice: "lo sono un impiegato, questo è il suo
mestiere; vuol dire che lui non fa altro che scrivere una lettera dopo
l'altra. Non arrotola la sua stuoia sulla trave, non va in cucina ad
arrostirsi un frutto non lava la sua ciotola. Mangia pesce ma non va a
pescare, mangia frutti ma non coglie un frutto dall'albero. Scrive una
lettera dopo l'altra; l'impiegato è appunto il suo mestiere.
Esattamente come ogni cosa in s‚ può essere un mestiere: deporre le
stuoie sulla trave, arrostire frutti, pulire ciotole, pescare pesci o
cogliere frutti. Solo il mestiere dà all'uomo il pieno diritto al suo
fare. Così
succede che la maggior parte dei Papalagi sanno fare soltanto quello che
è il loro mestiere, e il più grande capo, che ha molta saggezza in
testa e molta forza nel braccio, non è capace di deporre la sua stuoia
sulla trave o di pulire la sua ciotola. E così succede anche che colui
che è capace di scrivere una lettera di molti colori deve per forza non
essere capace di portare al largo nella laguna una canoa, o viceversa.
Avere un mestiere vuol dire: solo camminare, solo assaggiare, solo
combattere; insomma: saper fare solo una cosa. In
questo saper-fare-solo-una-cosa vi sono una grande manchevolezza e un
grande pericolo, poiché a ciascuno può capitare di trovarsi una volta
fuori nella laguna e dover guidare una canoa. Il Grande Spirito ci ha
dato le mani perché possiamo cogliere i frutti dagli alberi, per
prendere dalla palude le radici del taro. Ce le ha date per proteggere
il nostro corpo e difenderlo da tutti i nemici, e ce le ha certamente
date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri.
Ma non ce le ha certamente date solo perché costruissimo capanne, o
cogliessimo frutti, o strappassimo tuberi; esse devono essere al nostro
servizio in ogni momento e in tutte le occasioni. Questo
però il Papalagi non lo comprende. Ma che il suo modo di fare è
sbagliato, profondamente sbagliato e contro tutti i comandamenti del
Grande Spirito, lo comprendiamo dal fatto che ci sono dei bianchi che
non sanno più camminare; che mettono su pancia come un maiale, perché
devono sempre star fermi a causa del loro mestiere; che non sanno più
sollevare o gettare una lancia, perché le loro mani sanno tenere solo
l'osso per scrivere, sedere all'ombra e non fare altro che scrivere
lettere; che non sanno più guidare un puledro, perché devono
contemplare le stelle o spremersi pensieri dalla testa. Raramente
un Papalagi adulto è ancora in grado di saltare e correre come un
bambino. Cammina trascinando il corpo e si muove come se fosse sempre
impedito. Maschera e rinnega questa debolezza dicendo che correre e
saltare non sono cose adatte a un uomo della sua dignità. Ma questo è
un motivo ipocrita, perché le sue ossa sono indurite e inabili e tutti
i suoi muscoli hanno perso la loro gioia, perché il mestiere li ha
condannati al sonno e alla morte. Anche il mestiere è un demone che
distrugge la vita. Un demone che offre all'uomo belle menzogne, ma che
gli succhia il sangue dal corpo. Inoltre il mestiere danneggia il
Papalagi anche in un altro modo e si rivela demone anche per un altro
aspetto. E
una gioia costruire una capanna: abbattere gli alberi nella foresta e
tagliarli per farne dei pali, poi infiggere i pali nel terreno,
intrecciarvi sopra il tetto e alla fine, quando i pali e le travi e
tutto quanto è ben legato con i fili di cocco, ricoprire ogni cosa con
le foglie secche della canna da zucchero. Non occorre che vi dica quale
grande gioia è quando un intero villaggio ha costruito la capanna del
capo e persino le donne e i bambini prendono parte alla grande festa. Ma
che cosa direste se solo pochi uomini del villaggio potessero andare
nella foresta per tagliare gli alberi per farne dei pali? E se questi
pochi non potessero poi aiutare a piantare i pali, perché il loro
mestiere è soltanto abbattere gli alberi? E se quelli che hanno
piantato i pali nel terreno non potessero aiutare a intrecciare il tetto
perché il loro mestiere è solo piantare pali? E se quelli che
intrecciano il tetto non potessero poi ricoprirlo di fogliame, perché
il loro mestiere è soltanto intrecciare il tetto? In tal caso nessuno
di tutti questi potrebbe dare una mano a raccogliere la ghiaia fine
della spiaggia per fare il pavimento della capanna perché questo lo
potrebbero fare soltanto coloro che portano ghiaia per mestiere. E
allora a inaugurare la nuova capanna e a fare la grande festa dovrebbero
essere soltanto quelli che ci devono abitare, non tutti coloro che
l'hanno costruita. Voi
ridete e certamente direste: "Se di noi soltanto uno e non tutti
insieme potessimo lavorare, e se non potessimo aiutare in ogni lavoro
per il quale occorra la forza dell'uomo, allora la nostra gioia sarebbe
solo metà, anzi, non sarebbe gioia affatto". E voi certamente
chiamereste pazzo colui che pretende di avere da voi la vostra mano per
un solo scopo, come se tutte le altre membra e i sensi del vostro corpo
fossero paralizzati o morti. Da
qui viene quindi al Papalagi la sua grande infelicità. E' bello andare
una volta al ruscello a prendere l'acqua, è bello anche farlo parecchie
volte in un giorno; ma se uno dal levarsi al calare del sole non dovesse
fare altro che prendere acqua al ruscello, e questo tutti i giorni e
ogni giorno tutte le ore, fino a che le sue forze lo consentono, sempre
e continuamente, alla fine costui verrebbe colto dall'ira e scaglierebbe
il secchio lontano da s‚, infuriato per le catene che legano il suo
corpo. Poiché nulla è così pesante per l'uomo come fare continuamente
la stessa cosa. Ci
sono però dei Papalagi che non raccolgono solo acqua giorno dopo giorno
sempre alla stessa fonte (questo potrebbe ancora essere un grande
piacere), no, vi sono anche quelli che solo alzano una mano o
l'abbassano oppure la spingono contro un bastone, e questo in un luogo
sporco, senza luce e senza sole; che non fanno nulla che sia prova di
forza e dia qualche gioia, gente che dal pensiero del Papalagi è
costretta a levare o abbassare la mano oppure batterla contro una
pietra, perché con ciò si mette in moto o si regola una macchina che
taglia anelli bianchi o insegne da petto o conchiglie da calzoni o
qualche altra cosa. In Europa ci sono più uomini di quante palme ci
siano nelle nostre isole i cui volti sono grigi come la cenere, perché
non conoscono gioia alcuna nel loro lavoro, perché il mestiere divora
ogni piacere e dal loro lavoro non nasce alcun frutto, neppure una
foglia di cui poter gioire. E
per questo negli uomini cova un odio cocente per il proprio mestiere.
Tutti hanno nel cuore una qualche cosa, come un animale che è tenuto
alla catena e si ribella e vuol liberarsi e non vi riesce. E tutti
confrontano i loro mestieri gli uni con gli altri, e sono pieni di
invidia e di malcontento, e si parla di mestieri più elevati e più
bassi, sebbene tutti i mestieri siano soltanto un fare a metà. Perché
l'uomo non è soltanto mano o piede o soltanto testa; tutto in lui è
unito. Mano, piede, testa vogliono stare insieme. Quando tutte le membra
e i sensi lavorano insieme, solo allora il cuore dell'uomo può godere
in sana letizia; mai però quando solo una parte dell'uomo vive e le
altre devono essere come morte. Questo porta l'uomo allo smarrimento,
alla disperazione e alla malattia. Il
Papalagi vive nello smarrimento a causa del suo mestiere. Per la verità,
non vuole saperlo e sicuramente, se mi sentisse raccontare tutto questo,
vorrebbe dichiararmi pazzo, come colui che vuole essere giudice e che
però non può giudicare, perché lui stesso non ha mai avuto un
mestiere e neppure ha mai lavorato come un europeo. Ma
il Papalagi non ci ha portato mai la verità n‚ la spiegazione del
perché noi dovremmo lavorare più di quanto Dio può chiederci di fare
per saziare la fame, avere un tetto sopra la testa e trovare gioia e
piacere alla festa sulla piazza del villaggio. Piccolo può sembrare
questo lavoro, e la nostra esistenza può apparire povera di mestieri.
Ma colui che è uomo giusto e fratello delle molte isole fa con gioia il
suo lavoro, mai con sofferenza. Piuttosto non lo fa. E questo è ciò
che ci distingue dai bianchi. Il Papalagi sospira quando parla del suo
lavoro, come se fosse oppresso da un peso. I giovani delle Samoa vanno
cantando nel campo di taro; cantando le giovani donne lavano i panni nei
ruscelli. Il Grande Spirito non vuole certamente che diventiamo grigi
nel nostro mestiere e strisciamo come lumache nella laguna. Egli vuole
che restiamo ben ritti e fieri in tutto il nostro fare, e sempre uomini
con occhi lieti e membra sciolte. 9.
Del luogo della falsa vita e delle molte carte MOLTO,
miei cari fratelli del grande mare, molto avrebbe da raccontarvi il
vostro umile servo, per darvi un'idea della verità sull'Europa. Per far
questo, il mio discorso dovrebbe essere come un ruscelletto di montagna
che scorre dalla mattina alla sera, e ancora la verità non sarebbe
completa, perché la vita del Papalagi è come il mare di cui non si può
vedere con precisione l'inizio e la fine. Essa ha altrettante onde
quante la grande acqua, rugge e infuria, sorride e sogna. Come
un uomo non potrà mai svuotare il mare con il cavo della mano, così io
non posso portare a voi il grande mare dell'Europa con il mio piccolo
spirito. Ma
per questo non voglio tralasciare di riferirvi che, come il mare non può
essere senz'acqua, cosi la vita dell'Europa non può esistere senza il
luogo della falsa vita e senza le molte carte. Portate via queste due
cose al Papalagi e allora lui sarà come un pesce che l'onda ha sbattuto
sulla riva: non può far altro che sussultare con tutte le sue membra,
ma non può più nuotare e muoversi come gli piace. Il
luogo della falsa vita. Non è facile descrivervi questo luogo, che il
bianco chiama cinema, in modo che voi possiate comprenderlo e
immaginarlo chiaramente con i vostri occhi. In ogni città o villaggio
d'Europa c'è uno di questi luoghi misteriosi che gli uomini amano più
della casa del missionario. Di cui già i bambini sognano e con il quale
volentieri giocano nel pensiero. Il
cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo di
Upolu, sì, molto più grande. E buia anche in pieno giorno, tanto che
ciascuno non può riconoscere chi gli sta accanto. Così che si resta
accecati quando si entra, ma ancora più accecati quando si torna fuori.
Qui la gente entra e si avvia tastando il muro, fino a che una vergine
arriva con un piccolo lampo nella mano e la guida dove c'è posto per
sedere. Stretti stretti i Papalagi siedono tutti in fila nel buio,
nessuno vede il vicino, la buia capanna è colma di gente in silenzio.
Ciascuno siede sulla sua piccola panca e tutte le piccole panche sono
volte verso una parete. Dal
fondo di questa parete, come dal profondo di un burrone, sale un gran
rumore e un ronzio, e, non appena gli occhi si sono abituati all'oscurità,
si riconosce un Papalagi che, seduto, lotta con un cassone. Con le dita
tese di entrambe le mani batte sopra tante minuscole lingue bianche e
nere che il cassone butta fuori, e ogni lingua stride forte e dà a ogni
tocco un suono diverso, così che ne nasce uno stridore furioso come in
un grande litigio in un villaggio. Questo
rumore dovrebbe distrarre i nostri sensi e indebolirli, affinché
crediamo a ciò che vediamo e non dubitiamo che è vero e reale. Proprio
davanti alla parete si irradia una luce molto forte, come se sulla
parete battesse un fortissimo raggio di luna, e in questa luce ci sono
uomini che sembrano e vestono come veri Papalagi, che si muovono e vanno
avanti e indietro, camminano, ridono, saltano, proprio come in Europa si
fa dappertutto. E come il riflesso della luna nella laguna. E la luna
eppure non lo è. Così anche questo è soltanto un riflesso. Ciascuno
muove la bocca, nessuno dubita che parlino, eppure non si ode un solo
suono e parola alcuna, per quanto si faccia attenzione ad ascoltare e
per quanto sia fastidioso non udire nulla. E questo è anche il motivo
principale perché quel Papalagi batte sul cassone nero: esso deve dare
l'impressione che le voci non si possano udire a causa di quel rumore. E
per questo sulla parete di tanto in tanto appaiono delle scritte che
annunciano ciò che il Papalagi ha detto o dirà. Tuttavia,
queste persone non sono creature vere. Se si volessero afferrare, ci si
accorgerebbe che sono fatte di luce e che non si possono prendere. Sono
lì soltanto per mostrare al Papalagi le sue gioie e i suoi dolori, le
sue follie e le sue debolezze. Così lui vede le donne e gli uomini più
belli proprio vicinissimi. Anche se sono muti, lui vede i loro movimenti
e il luccichio dei loro occhi. Anzi, sembra che gli sorridano e gli
vogliano parlare. Così vede anche i massimi capi, con cui mai potrebbe
parlare, li vede da vicino e indisturbato, come fossero suoi pari.
Prende parte ai grandi banchetti, a ricevimenti e ad altre feste, così
che gli pare di essere dappertutto, sedere a banchetto e far festa con
loro. Ma vede anche come un Papalagi rapisce una fanciulla alla
famiglia. O come una fanciulla è infedele al suo giovane amante. Vede
come un uomo cattivo afferra alla gola un ricco signore e come le dita
affondano nella carne della sua gola e gli occhi del signore escono
dalle orbite, lo vede morto e vede l'uomo cattivo strappargli dai panni
il metallo rotondo e la carta pesante. Mentre
l'occhio del Papalagi guarda tutte queste cose liete o orribili, lui se
ne deve stare seduto immobile; non può ammonire la fanciulla infedele,
non può accorrere in aiuto del ricco signore per salvarlo. Ma questo
non dà alcun dolore al Papalagi; anzi, egli guarda ogni cosa con grande
voluttà, come se non avesse cuore. Non prova nessuno spavento e nessun
orrore. Osserva tutto come se lui stesso fosse una creatura del tutto
diversa. Poiché colui che sta a guardare è sempre fermamente convinto
di essere migliore degli uomini che vede nella luce, e che lui non
farebbe mai tutte le follie che gli vengono mostrate. Sta zitto,
trattenendo il respiro, e i suoi occhi pendono dalla parete, e, non
appena vede un cuore forte o una nobile immagine, se la prende nel cuore
e pensa: "Questa è la mia immagine". Siede lì completamente
immobile sulla sua panca e fissa la ritta parete liscia su cui nulla
vive, se non ingannevoli riflessi che un mago vi getta da dietro, da una
stretta apertura nella parete opposta. Per cui, così, tante cose vivono
di una falsa vita. Assorbire dentro di s‚ queste false immagini, che
non hanno una vita reale, questo è ciò che procura al Papalagi un così
intenso godimento. In questa stanza buia egli può entrare nella falsa
vita senza vergogna e senza che gli altri vedano i suoi occhi. Il povero
può fare la parte del ricco, il malato quella del sano, il debole
quella del forte. Ciascuno lì nel buio può prendere quello che vuole e
vivere una falsa vita, fare ciò che nella vita reale mai e poi mai
riuscirebbe a fare. Darsi
in tal modo alla falsa vita è diventata una grande passione del
Papalagi, una passione spesso così grande che in essa egli dimentica la
sua vita vera. Questa passione è una cosa malata, perché l'uomo giusto
non vuole vivere una vita falsa nel buio di una stanza, ma vuole viverne
una calda e reale alla luce del sole. La conseguenza di questa passione
è che molti Papalagi che escono dal luogo della falsa vita non sanno
poi più distinguere questa dalla vita reale e restano confusi e
smarriti, si credono ricchi quando sono poveri, o belli quando sono
brutti. Oppure fanno cose orribili, che mai avrebbero fatto nella loro
vita reale, ma le fanno perché non sanno più distinguere ciò che è
vero da ciò che non lo è. E uno stato molto simile a quello che noi
tutti conosciamo negli europei quando hanno bevuto troppa kava europea e
credono di camminare sul mare. Anche
le molte carte ottengono sul Papalagi un effetto molto simile di
ebbrezza e di frenesia. Che cosa sono le molte carte? Immaginate una
stuoia di tapa sottile, bianca, ripiegata, divisa e poi ancora
ripiegata, con tutti i lati ricoperti da segni fittissimi: queste sono
le molte carte o, come il Papalagi le chiama, i giornali. In
queste carte si trova la grande intelligenza del Papalagi. Lui ogni
mattina e ogni sera deve tenerci dentro la testa per riempirla e
saziarla, per poter meglio pensare e avere dentro tante cose; come il
cavallo che corre meglio se ha mangiato molte banane e ha la pancia ben
piena. Il signore sta ancora sulla sua stuoia, che già i messaggeri
corrono per tutto il paese e distribuiscono le molte carte. E la prima
cosa che il Papalagi fa quando si sveglia dal sonno. Legge. Affonda gli
occhi in quello che le molte carte gli raccontano. E tutti i Papalagi
fanno la stessa cosa, leggono. Leggono quello che i grandi capi e i
massimi oratori d'Europa hanno detto nei loro ricevimenti. Tutto ciò
sta esattamente segnato sulla stuoia bianca, anche se ‚ una cosa molto
stupida. Anche i panni che avevano addosso sono minutamente descritti, e
quello che i grandi signori hanno mangiato, come si chiama il loro
cavallo, se soffrono di elefantiasi o se hanno deboli pensieri. Ciò
che loro raccontano, nel nostro paese si potrebbe leggere come segue:
"Il giudice di Matautu questa mattina, dopo un buon sonno, ha per
prima cosa mangiato un avanzo del taro della sera precedente, poi è
andato a pescare, a mezzogiorno è tornato nella sua capanna, si è
steso sulla sua stuoia e ha cantato e ha letto la Bibbia fino alla sera.
Sua moglie Sina ha dapprima allattato il suo bambino, poi è andata al
bagno e lungo la strada ha trovato un bel fiore di pua, che si è messa
come ornamento nei capelli". E via di questo passo. Tutto,
tutto ciò che accade e che la gente fa e non fa, tutto viene
raccontato: i loro buoni e cattivi pensieri, se hanno ammazzato una
gallina o un maiale, se si sono costruiti una nuova canoa. Non succede
nulla in tutto il paese che queste stuoie bianche non riportino
fedelmente. Il Papalagi chiama questo: essere ben informato. Vuole
essere al corrente di tutto quello che da un tramonto all'altro accade
nel paese. E' indignato se qualcosa gli sfugge. Beve tutto con grande
avidità. Sebbene vi trovi anche le cose più orribili e tutto ciò che
la sana mente di un uomo vorrebbe al più presto dimenticare. Già,
proprio queste, le cose cattive, che fanno male, vengono raccontate
ancor più dettagliatamente delle cose buone, in tutti i minimi
particolari, come se raccontare il buono non fosse meglio e più
importante e più allegro che raccontare tutto il male. Quando
tu leggi il giornale, non hai più bisogno di andare ad Apolima, a
Manono o Savaii per sapere che cosa fanno i tuoi amici, che cosa pensano
e che cosa festeggiano. Puoi stare tranquillamente sulla tua stuoia: le
molte carte ti racconteranno tutto. Questo sembra bello e gradevole, ma
è soltanto un inganno. Perché quando tu incontri tuo fratello e
ciascuno dei due ha già tenuto la testa affondata nelle molte carte,
allora non avrete più niente di speciale da raccontarvi a vicenda,
perché ciascuno avrà già nella testa esattamente le stesse cose, e
allora o resterete in silenzio o vi ripeterete soltanto quello che
dicono le molte carte. Sono invece cose tanto più belle cantare una
canzone o festeggiare un evento o soffrire una pena, che non trovarsi
tutto raccontato da bocche straniere e non averlo visto con i propri
occhi. Ma
ciò che fa i giornali così dannosi per il nostro spirito, non è
quello che ci raccontano, ma piuttosto il fatto che essi ci dicono anche
ciò che dobbiamo pensare di questo e di quello, dei nostri grandi capi
o dei capi di altri paesi, degli avvenimenti e di tutto il fare degli
uomini. Il giornale vorrebbe fare di tutti gli uomini una testa sola,
esso è nemico della mia testa e del mio pensiero. Pretende di imporre a
ciascuno la propria testa e il proprio pensiero. E riesce anche a
ottenerlo. Quando tu la mattina leggi le molte carte, sai già a
mezzogiorno che cosa ogni altro Papalagi ha nella testa e che cosa
pensa. Il
giornale è anche una specie di macchina che fabbrica ogni giorno nuovi
pensieri, molti di più di quanto una sola testa possa fare. Ma la
maggior parte di essi sono deboli pensieri, senza fierezza n‚ forza;
riempiono, sì, le nostre teste con molto nutrimento, ma non le rendono
più forti. Potremmo nello stesso modo anche riempire le nostre teste di
sabbia. Il Papalagi riempie la sua testa con tutto questo grande
nutrimento di carta. Prima che possa buttarne via uno, già ha davanti
il seguente. La sua testa è come le paludi delle mangrovie, che
soffocano nel loro stesso limo, dove non crescono più n‚ verde n‚
frutti, dove salgono solo cattivi vapori e ronzano intorno sciami di
insetti pungenti. Il
luogo della falsa vita e le molte carte hanno reso il Papalagi ciò
ch'egli è ora: un uomo debole e smarrito, che ama ciò che non è vero,
che non riconosce più ciò che è vero, e prende il riflesso della luna
per la vera luna e una stuoia scritta per la vita stessa. 10.
La grave malattia del pensare QUANDO
la parola "spirito" sale alle labbra del Papalagi, i suoi
occhi si ingrandiscono, si fanno tondi e fissi; gonfia il petto, respira
pesantemente e si stira come un guerriero che ha sconfitto il proprio
nemico. Perché questo "spirito" è qualcosa di cui è
particolarmente fiero. Qui non si tratta del grande, possente spirito
che il missionario chiama "Dio", di cui tutti non siamo che
miserevoli riflessi, ma del piccolo spirito, quello che appartiene
all'uomo e fa i suoi pensieri. Se
io da qui vedo l'albero di mango dietro la chiesa della missione, ciò
non è spirito, perché io vedo soltanto. Ma se riconosco che è più
grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito. Devo cioè
non soltanto vedere qualcosa, ma anche sapere qualcosa. Questo sapere il
Papalagi lo usa dall'alba al tramonto. Il suo spirito è sempre come una
canna da sparo piena di polvere o come un amo gettato. Per questo egli
ha compassione di noi, popoli delle molte isole, perché non usiamo
alcun sapere. Dice che noi siamo poveri di spirito e stupidi come
l'animale della giungla. Questo
è certo vero, che noi usiamo poco ciò che il Papalagi chiama
"pensare". Ma ci si può domandare chi è lo stupido, se colui
che non pensa molto o colui che pensa troppo. Il Papalagi pensa
continuamente: "La mia capanna è più piccola della palma. La
palma si piega nella tempesta. La tempesta parla con una gran
voce". Queste cose lui pensa; alla sua maniera, naturalmente. Ma
pensa anche su se stesso: "lo sono piccolo di statura. Il mio cuore
è sempre lieto alla vista di una fanciulla. Mi piace molto fare un
viaggio, e così via. Ciò è bello e buono e può anche essere utile
per colui che ama questo gioco nella sua testa. Ma il Papalagi pensa
tanto, che il pensare è diventato per lui abitudine, necessità,
costrizione addirittura. Lui deve sempre pensare. Ben difficilmente
riesce a non pensare e a vivere invece con tutte le sue membra. Lui vive
soltanto con la testa, mentre tutti gli altri suoi sensi giacciono nel
sonno profondo. Sebbene egli intanto cammini diritto, parli, mangi e
rida. Il pensare, i pensieri (questi sono il frutto del pensare) lo
tengono prigioniero. Si inebria dei suoi stessi pensieri. Quando splende
il sole, lui subito pensa: "Come splende magnificamente il sole in
questo momento". E continua a pensare: "Come splende".
Questo è sbagliato. Assolutamente sbagliato. Stolto. Perché quando il
sole splende è assai meglio non pensare affatto. Un saggio samoano
distende le sue membra nella calda luce e non pensa a niente. Accoglie
il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, con i piedi, i
fianchi, il ventre, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra
gioiscano e si rallegrino per conto loro e pensino per lui. Ed esse
certamente pensano, anche se in maniera diversa dalla testa. Ma il
Papalagi ne è in molte maniere impedito; il molto pensare gli sta
davanti come un gran blocco di lava ch'egli non può togliere di mezzo.
Ha, certo, pensieri allegri, ma non ride; ha pensieri tristi, ma non
piange. Ha
fame, ma non va a prendersi del taro e del palusami (piatto tipico
samoano, n.d.r.). Il più delle volte è un uomo i cui sensi vivono in
lotta con lo spirito: un uomo diviso in due parti. La
vita del Papalagi assomiglia molto spesso a quella di un uomo che deve
andare con la barca a Savaii e che, non appena lasciata la riva, pensa:
"Quanto tempo potrò impiegare per arrivare a Savaii?" Pensa,
e intanto non vede il bel paesaggio che attraversa nel corso del suo
viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna.
Non appena il suo occhio l'ha afferrata, non può più lasciarla:
"Che cosa ci può essere dietro quella montagna? Ci sarà una baia
profonda oppure piccola?" E per il molto pensare dimentica di
cantare le belle canzoni dei giovani navigatori, e neppure ode le parole
scherzose delle fanciulle. Appena la baia e la montagna sono alle sue
spalle, subito lo tormenta un nuovo pensiero: se prima di sera non verrà
una tempesta. Sicuro: se verrà la tempesta. E cerca nel cielo limpido
le nuvole nere. Continua a pensare alla tempesta che potrebbe venire. La
tempesta non viene e lui giunge a Savaii la sera stessa senza danno. Ma
per lui è come se non avesse neppure fatto il viaggio, perché i suoi
pensieri per tutto il tempo sono stati lontani dal corpo e fuori
dell'imbarcazione. Ma
uno spirito che ci tormenta in tal modo è un demonio e io non capisco
perché molti lo debbano amare. Il Papalagi ama e venera il suo spirito
e lo nutre con i pensieri della sua testa. Non lo lascia mai languire,
ma gli è anche di poco incomodo quando i pensieri si divorano a
vicenda. Fa molto rumore con i suoi pensieri e lascia che diventino
chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi pensieri
fossero splendidi come fiori, come montagne o foreste. Di essi parla
come se al confronto un uomo valoroso o una fanciulla di animo lieto non
avessero alcun valore. Fa esattamente come se ci fosse un comandamento
che ordina all'uomo di pensare molto. Sicuro, come se questo
comandamento venisse da Dio. Quando le palme e le montagne pensano, non
fanno certo tanto baccano. E, sicuramente, se le palme pensassero con
tanto rumore come fa il Papalagi, non avrebbero foglie così verdi e
belle e non darebbero frutti così dorati. I frutti cadrebbero prima di
essere maturi. Ma è molto più probabile che esse pensino assai poco. Oltre
a ciò ci sono moltissime maniere di pensare e innumerevoli bersagli per
la freccia dello spirito. Triste è la sorte di colui che va molto
lontano con il pensiero. "Che accadrà quando verrà la prossima
aurora? Che cosa vorrà da me il Grande Spirito quando io arriverò
nell'oltretomba? Dov'ero prima che i messaggeri delle divinità mi
facessero dono dell'anima? Questo pensare è tanto inutile quanto voler
vedere il sole con gli occhi chiusi. Non si può. Perciò non è neppure
possibile pensare fino in fondo l'inizio e la fine delle cose. Se ne
avvedono coloro che ci si provano. Dai loro giovani anni fino alla
maturità restano fermi su un punto, come il martin pescatore. Non
vedono più il sole, il vasto mare, le dolci fanciulle; non provano più
alcuna gioia, niente di niente. Persino la kava non piace più loro e
durante le danze sulla piazza del villaggio tengono gli occhi abbassati
e guardano a terra. Non vivono, anche se non sono morti. Sono stati
colpiti dalla grave malattia del pensare. Questo
pensare dovrebbe rendere grande e nobile la mente. Se uno pensa molto e
in fretta, in Europa si dice che è una grande testa. Invece di provare
compassione per queste grandi teste, esse sono oggetto di particolare
ammirazione. I villaggi eleggono questi uomini loro capi e, là dove
arriva, una grande testa deve pensare in pubblico, davanti alla gente,
così che tutti ne hanno gran piacere e l'ammirano. Quando muore una
grande testa, tutto il paese è in lutto e grandi sono il dolore e le
lamentazioni per ciò che si è perduto. Si fa un'immagine di pietra
della grande testa del defunto e la si mette davanti agli occhi di
tutti, sulla piazza del paese. Queste teste di pietra sono molto più
grandi di com'erano quelle vive, affinché tutti le possano bene
ammirare e ricordarsi con umiltà di quanto sono piccole le loro. Quando
si domanda a un Papalagi: "Perché pensi tanto?" Lui risponde:
"Perché non voglio restare stupido". Io
credo però che questo sia soltanto un pretesto e che il Papalagi segua
un cattivo impulso; che il vero scopo del suo pensare sia di arrivare a
capire ciò che sta dietro le forze del Grande Spirito. Un fare che egli
stesso definisce con l'altisonante parola "conoscenza".
Conoscenza vuol dire avere una cosa cosi vicina agli occhi che ci si
batte il naso. Questo battere il naso nelle cose e frugarci dentro è
una brutta e deprecabile voglia del Papalagi. Afferra la scolopendra, la
trafigge con una minutissima lancia, le stacca una zampa: "Che
aspetto ha una zampa staccata in quel modo dal corpo? Come era
attaccata?" Taglia la zampa, la apre per misurarne la grandezza.
Questo è importante, è essenziale. Stacca una scheggia dalla zampa,
piccola quanto un granello di sabbia, e la mene sotto un lungo tubo che
ha una forza segreta e rende gli occhi tanto più acuti. Con questo
occhio magico il Papalagi studia e controlla ogni cosa, le tue lacrime,
un pezzetto della tua pelle, un capello, tutto. Spezzetta tutte le cose
fino a quando arriva al punto in cui non c'è più nulla da tagliare e
da dividere. Sebbene questo punto sia il più piccolo, di solito è più
importante, perché è un accesso alla grande conoscenza che soltanto il
Grande Spirito possiede. Questo
accesso non è aperto al Papalagi e anche i suoi occhi magici più acuti
non hanno ancora potuto guardarvi dentro. Nessuno è mai salito più
alto di quanto lo fosse il tronco della palma che le sue gambe
stringevano. Giunto sulla cima della pianta, gli veniva a mancare il
tronco per salire più su. Il Grande Spirito non ama la curiosità degli
uomini, per questo ha teso sopra tutte le cose grandi liane che sono
senza principio e senza fine. Perciò chiunque indaghi con attenzione su
tutto il pensare dovrà alla fine avvedersi che rimane sempre stupido e
che deve lasciare al Grande Spirito tutte le risposte che lui stesso non
può dare. Questo, d'altronde, i Papalagi più coraggiosi e più
intelligenti lo ammettono. Tuttavia molti di quei malati del pensiero
non sanno rinunciare a tale piacere; e per questo il pensare degli
uomini conduce allo smarrimento per tante e diverse vie, esattamente
come se camminassero in una giungla dove non c'è ancora alcun sentiero.
Nel pensare consumano a tal punto i loro sensi che poi, come in effetti
è già accaduto, improvvisamente non sanno più distinguere tra uomo e
animale. Affermano che l'uomo è un animale e che l'animale è umano. Deprecabile
e fatale è perciò che tutti i pensieri, non importa se buoni o
cattivi, vengano subito buttati sulle bianche stuoie sottili.
"Vengono stampati", dice il Papalagi. Che vuol dire che ciò
che quei malati pensano viene poi scritto con una macchina molto
misteriosa, che ha mille mani e la fortissima volontà di molti grandi
capi. Ma non solo una o due volte, bensì tantissime volte, infinite
volte essa riscrive sempre gli stessi pensieri. Molte stuoie di pensieri
vengono poi legate in fasci e schiacciate insieme (libri, li chiama il
Papalagi) e inviate in tutte le parti del grande paese. Così ben presto
tutti coloro che prendono dentro di s‚ questi pensieri ne vengono
contagiati. E divorano queste stuoie di pensieri come dolci banane, esse
si trovano in ogni capanna, se ne colmano interi cassoni, e giovani e
vecchi vi rosicchiano intorno come i topi rosicchiano la canna da
zucchero. Perciò sono così pochi coloro che ancora possono pensare
ragionevolmente, con pensieri naturali, come li ha qualsiasi onesto
samoano. Allo
stesso modo anche ai bambini vengono messi in testa tanti pensieri finché
ce ne stanno. Ogni giorno sono obbligati a ingoiare una certa quantità
di stuoie di pensieri. Solo i più sani respingono questi pensieri o li
lasciano cadere dal loro spirito come attraverso una rete. La maggior
parte invece se ne riempie la testa a tal punto che poi non vi resta più
spazio e non vi entra più alcuna luce. Questo lo si chiama
"educare lo spirito" e lo stato permanente di questo
smarrimento si chiama "cultura", cosa generalmente diffusa. Cultura
vuol dire colmare le proprie teste fino all'orlo estremo con le
conoscenze. L'uomo colto conosce la lunghezza della palma, il peso della
noce di cocco, i nomi di tutti i grandi capi e l'epoca delle loro
guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle e di tutte le
terre. Conosce per nome ogni fiume, ogni animale, ogni pianta. Sa tutto.
Fai una domanda a un uomo colto e lui ti spara addosso la risposta prima
ancora che tu abbia finito di chiudere la bocca. La sua testa è sempre
carica di munizioni, è sempre pronta a sparare. Ogni europeo consuma
gli anni più belli della sua vita per rendere la sua testa simile alla
più rapida canna da sparo. Chi vuole sottrarsi a questo, vi viene
costretto. Ogni Papalagi deve sapere, deve pensare. L'unica
cosa che potrebbe ancora guarire tutti questi malati di pensiero,
l'oblio, il cacciar via i pensieri, è un'arte che non viene praticata.
Sono quindi pochissimi quelli che lo sanno fare. La maggior parte porta
dentro la testa un tale peso che il corpo è stanco e perde energie e
appassisce prima del tempo. Dobbiamo noi dunque, cari non pensanti fratelli, dopo tutto quello che vi ho in verità raccontato, veramente imitare il Papalagi e imparare tutti quei pensieri come lui? Io dico: "No!" Perché‚ noi non dobbiamo fare nulla che non sia ciò che ci rende più forti nel corpo e più lieti e migliori nell'animo. Dobbiamo guardarci da tutto ciò che ci potrebbe derubare della nostra gioia di vivere, soprattutto da ciò che può oscurare il nostro spirito e togliergli la sua chiara luce, ciò che mette la nostra testa in lotta con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra col suo fare che il pensare è una grave malattia che riduce di molto il valore di un uomo, lo rende più piccolo. |
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